domenica 15 aprile 2012

Grisbi (1954)




Non circola su Jacques Becker nessuna teoria, nessuna analisi dotta, nessuna tesi. La sua opera come la sua persona scoraggiano l’esegeta; tanto meglio.
François Truffaut, I film della mia vita


Jacques Becker, questo sconosciuto. Fino a qualche settimana fa, lo ammetto, il suo era un nome che, almeno come regista, mi diceva poco o niente. Esisteva, certo, il Becker assistente di Jean Renoir, collaboratore e complice di tanti capolavori, responsabile addirittura in prima persona di inquadrature memorabili come quella della fuga sulla neve in La grande illusione (1937). Ed esisteva, naturalmente, il Becker intervistatore “per caso”, che si trovava coinvolto dai “Cahiers du Cinéma” in una delle più belle conversazioni con il suo amico Howard Hawks (tradotta ora nel volume La politica degli autori. Le grandi interviste dei “Cahiers du Cinéma”, minimum fax, 2000). Ma il Becker regista? C’è voluto un incontro del tutto fortuito con il suo Grisbi (Touchez pas au grisbi, “non toccate il bottino”) per svelarmi questo maestro dimenticato, questo Autore capace, almeno ai miei occhi, di coniugare insieme i meriti del cinema francese con la forza dei generi americani. E il suo film, a torto o a ragione, non ho allora potuto fare a meno di leggerlo proprio sotto il duplice segno di Renoir e Hawks. Ma andiamo con ordine.
Fra le tante caratteristiche che rendono Hawks un narratore unico c’è la capacità di catturare un mondo ed esporne i conflitti basilari in una manciata di minuti, a volte persino secondi. I pescatori di Tiger Shark, i corridori di The Crowd Roars, gli aviatori di The Dawn Patrol: tutti personaggi che ci pare di conoscere da sempre e che invece ci vengono presentati in prologhi fulminanti, in cui spesso già si dibattono fra la vita e la morte. Becker è senz’altro meno estremo, ma non meno svelto: gli bastano quattro inquadrature e ha già creato un universo. “Parigi 1953, nell’ambiente della ‘mala’...”, ci informa una didascalia iniziale. Da un campo lunghissimo, privo di figure umane riconoscibili, passiamo in dissolvenza a un primo piano del nostro protagonista, Max (Jean Gabin). Il conflitto fondante, uno dei temi che attraverserà tutta l’opera, è già qui, in questa transizione da uno spazio anonimo a un volto riconoscibilissimo: la nostra storia, come quella di tanti altri noir, sarà quella di un personaggio che dovrà affrontare uno spazio ostile, notturno, alienante. Ma se con il primo stacco Becker ha creato un percorso morale, con quello successivo mette invece già in azione il motore narrativo, “romanzesco”, del film: un inserto ci informa di un bottino che, possiamo esserne certi fin da subito, sarà l’elemento trainante della vicenda (il MacGuffin, per dirla con Hitchcock). Un tema e un pretesto narrativo, ci manca soltanto il contesto dell’azione, luoghi e personaggi, che appunto ci vengono illustrati dall’inquadratura successiva, in cui la macchina da presa, accompagnandosi con un elegante carrello, situa il nostro protagonista in uno spazio di partenza ben preciso. C’è già tutto, a rigore per fare un film basterebbero queste quattro inquadrature, che come in Hawks racchiudono un mondo, i suoi conflitti e i suoi personaggi. Ma è qui, invece, che emerge l’anima renoiriana del film, la capacità di dilatare i tempi in funzione tanto narrativa quanto descrittiva. Il lavoro che Becker conduce su ogni singola scena, infatti, consiste nell’ampliarla al di là della sua funzione più immediata, arricchendola di notazioni realistiche che travalicano senz’altro le strettoie del racconto di genere. Il film, non a caso, è composto da sole 24 scene (Rififi di Jules Dassin, per dire, ne ha il doppio), ma l’effetto finale è tutt’altro che “meccanico”, proprio perché all’interno di ogni sequenza si moltiplicano le divagazioni, i rimandi e i personaggi di contorno. Si vedano, tanto per fare qualche esempio, i clienti seduti da mère Bouche accanto al tavolo di Max, o il venditore ambulante di fiori, o l’elettricista manesco del Mystific. (Divertente pensare che, ai tempi delle prime aiuto-regie, Renoir spesso chiedeva proprio a Becker di interpretare piccoli ruoli di questo tipo, come il poeta in Boudu salvato dalle acque). Gli stessi cambi di scena, peraltro, tendono a non spezzare la continuità del racconto, e il film riduce davvero al minimo il ricorso alle ellissi, sforzandosi invece di rendere significativi anche quei momenti “morti” come i viaggi in auto, i parcheggi e i saluti. La serata di Max e soci, in altre parole, ci viene raccontata minuto per minuto, spostamento per spostamento, in modo tale che quell’esca narrativa iniziale (il “grisbi”) abbia tutto il tempo di decantare: l’intreccio è per così dire “arioso” proprio perché gli eventi non sembrano seguire una logica predeterminata, non ci appaiono troppo artificiosamente concatenati. L’effetto di realismo nasce proprio da qui, da questo processo di sottrazione e diluizione operato sulle regole stesse del genere. Complice anche la presenza di Gabin, la memoria non può che correre appunto a un film di Renoir, French Can Can, che prende anch’esso le mosse dall’apparente “registrazione” di una qualsiasi serata dei suoi personaggi. E poco importa che French Can Can esca soltanto qualche mese più tardi dell’exploit di Grisbi, quel che conta è il metodo, tipicamente renoiriano, non il merito, tanto di Becker quanto di Renoir.
Alla strutturazione del tempo, comunque, si affianca un lavoro sugli spazi non meno elaborato e significativo. Le peculiarità della prima ambientazione, nel ristorante di mère Bouche, si colgono però soprattutto in rapporto alla scena successiva, ambientata in un locale ben diverso, il night club Mystific. Il ristorante, che non a caso è il ritrovo preferito di Max, è caratterizzato da un’atmosfera familiare, accogliente, tanto riservata che la padrona arriva persino a scegliersi i clienti e abbassare la serranda per tutti gli altri. Lo spazio, su un solo piano, è luminoso e ordinato, percorso da movimenti di macchina che accompagnano i personaggi. Le inquadrature, in particolare, non mettono mai in discussione la centralità dei personaggi, ripresi spesso in coppia ma comunque a distanza ravvicinata, anche per caratterizzare da subito e a tutto tondo i nostri protagonisti.
L’ambiente del night, per converso, è quello equivoco e impersonale che caratterizza molti dei luoghi e non-luoghi tipici del noir. Intanto la struttura stessa dell’edificio non è mai esattamente chiarita, perché il percorso dei personaggi passa per scale, porte e corridoi, che insieme alle finestre ridefiniscono costantemente la nostra percezione dello spazio, frammentato nelle varie inquadrature. Scopriamo, per esempio, che dall’ufficio di Pierrot ci sono ben due finestre da cui, senza farsi scoprire, è possibile tener d’occhio sia la strada che la sala da ballo: ogni personaggio, in pratica, è sempre potenzialmente spiato a sua insaputa. A un’illuminazione contrastata, più tetra e ambigua, si aggiunge poi un diverso modo di comporre il quadro, anch’esso volto a evidenziare la caotica promiscuità dell’ambiente: i personaggi, spesso disposti a L, non sono più il fulcro della messa in scena, perché attraverso la profondità di campo i loro corpi tendono a diventare tasselli di una composizione formale quasi “decorativa”, smarrendo in ciò la propria individualità (e infatti diminuiscono i piani ravvicinati, mentre abbondano mezze figure e piani americani).
Senza arrivare ai soliti discorsi sull’alienazione metropolitana, è insomma evidente che Becker giustappone all’interno del racconto spazi “ospitali” (materni?) ad altri invece sotterraneamente “ostili”. Due, però, sono le precisazioni da far subito. La prima, figurativa, riguarda il rapporto con le due tradizioni cinematografiche in cui il film come dicevamo si inserisce: il noir di derivazione americana e il realismo alla francese. La rappresentazione degli spazi urbani, infatti, sembra quasi voler mediare fra queste due scuole, scegliendo ambienti e prospettive anche angoscianti, ma senza alcuna tentazione “espressionista” di enfatizzarli (il massimo che Becker si permette è la visita notturna di Ramon a casa di Max, vagamente hitchcockiana). Persino il senso di claustrofobia è sapientemente mitigato con l’inclusione di interni girati dal vero, in cui quindi, come in Renoir, finestre e vetrine si affacciano direttamente su una Realtà che, comunque, non è mai rimossa, e anzi diverrà il teatro della resa dei conti finale, curiosamente ambientata in aperta campagna. (Non conosco abbastanza il Renoir “nero” per avventurarmi in raffronti con film come La nuit du carrefour, ma il discorso meriterebbe senz’altro di esser ripreso in altra sede.)
D’altra parte, se per il momento non arriviamo ancora all’astrazione del polar alla Melville, è anche perché il film intavola costantemente una tensione dialettica fra spazio e attore, ambiente e personaggio. È la recitazione, in altre parole, a tenere a distanza qualsiasi tentazione formalistica, sfruttando anche quei meccanismi di riconoscibilità divistica tanto cari al cinema americano: Jean Gabin, presente quasi in ogni scena, diventa la nostra guida d’eccezione in questo susseguirsi di immagini anche molto ambigue e complesse. Il gusto per la dilatazione e la divagazione è insomma costantemente bilanciato dalla presenza del divo-icona che accentra su di sé lo sguardo del pubblico.
La recitazione, come l’ambientazione, è d’altro canto costruita accostando stili più o meno opposti. I due protagonisti, Max e Riton, amici per la vita, non potrebbero infatti dimostrare comportamenti più diversi. Per tornare alle nostre convergenze hawksiane, potremmo rifarci a John Belton (Cinema Stylists, Scarecrow, 1984) e osservare come la recitazione di Jean Gabin somigli in questo film a quella di John Wayne: la sua presenza fisica catalizza l’attenzione proprio perché ogni gesto, così misurato, sembra sottintendere un perfetto controllo di tutti gli elementi all’interno dell’inquadratura. Il suo personaggio, almeno per la prima metà del film, non prende quasi mai nessuna vera iniziativa (nemmeno con le donne), non dà mai il via a una scena o a un dialogo, ma si limita in genere a reagire, dimostrando proprio in questo modo una sorta di superiore equilibrio rispetto ai personaggi che lo circondano: esemplare, in questo senso, la scena nel camerino di Josy, con la ragazza che gli getta le braccia al collo; o anche quella in taxi, quando l’autista lo avverte di essere pedinato. Il suo corpo, al tempo stesso, non è mai completamente immobile, ma è anzi continuamente animato da piccoli gesti, privi di qualsiasi affettazione e proprio per questo così potenti: bastano un cucchiaino che gira il caffé, due passi nell’ufficio di Pierrot, addirittura un’alzata d’occhi per renderlo ogni volta padrone della scena. Non a caso il suo rapporto con lo spazio circostante è interattivo, nel senso che il personaggio è costantemente in grado di plasmarlo e personalizzarlo a proprio vantaggio: sceglie la musica nel juke-box, apparecchia la tavola, prepara il giaciglio per la notte. E il suo appartamento, arredato con tanta cura, diventa in questo senso autentico contraltare per l’anonimo alberghetto in cui dimora invece Riton. Il personaggio dell’amico, infatti, è caratterizzato al contrario da una passività pressoché totale, che gli permette al massimo di abbassare lo sguardo nei momenti di imbarazzo. La sua immobilità, sia al ristorante che al night club, ce lo presenta da subito come incapace di controllare lo spazio circostante, come una figura totalmente dipendente dal socio, insieme al quale è quasi sempre inquadrato in coppia. (L’unica scena in cui la sua gestualità acquista una qualche convinzione, neanche a farlo apposta, è quella in cui Max al telefono gli spiega come comportarsi.) Ma questa comunione si spezza, in qualche modo, proprio nella scena in cui i due mangiano insieme, una sorta di ultima cena (e il pasto in comune, come ci ricorda Il buco, è per Becker momento fondamentale in ogni amicizia). Max, che al ritorno dal night è scampato a un tentativo di sequestro ordito da Angelo, spiega infatti all’amico che il bottino è in pericolo, e che sono state proprio le chiacchiere di Riton con Josy a metterli nei guai. Il gioco dialogico cambia marcia, perché da qui è Max a prendere l’iniziativa, ma Riton non è invece in grado di reagire (“non capisco, Max”). Le inquadrature che, come abbiamo visto, erano molto spesso “a due”, dividono adesso i personaggi, proprio perché Max rinfaccia a Riton di non potersi più fidare di lui.
Non si creda, però, che la caratterizzazione di Gabin spinga direttamente il personaggio di Max verso il mito, perché Becker invece lavora al tempo stesso in direzione opposta. Intanto, come abbiamo visto, l’energia del protagonista non emerge tanto attraverso prove di forza violenta (la rapina, di fatto, avviene prima dell’inizio del racconto), quanto attraverso le azioni più banali di tutti i giorni, a tavola o in camera da letto. Inoltre, come evidenziato da Truffaut già all’epoca, Grisbi è anche un film sulla vecchiaia di un antieroe, su un uomo ormai stanco e disilluso che non chiede altro che di godersi finalmente la tanto sospirata pensione. Un personaggio che anticipa quello di Bob le flambeur di Jean-Pierre Melville (1956), ma che nella deliziosa trovata degli occhiali da vista non può che rimandare a She Wore a Yellow Ribbon di John Ford (ed ecco riaffiorare, di sua spontanea volontà, il parallelo Gabin/Wayne). Soprattutto, però, si tratta del personaggio di un uomo coerente con se stesso, che ha deciso di invecchiare con dignità, senza rendersi ridicolo o dover rinunciare ai propri principi. È proprio da questi presupposti, pazientemente edificati nella prima metà del film (“descrittiva”), che nasce il dramma vero e proprio, che si innesca soltanto nella seconda metà: inetto come si è già dimostrato, Riton pensa di poter sistemare le cose con Josy e si fa invece catturare da Angelo, che lo usa come ostaggio per ricattare Max. O l’amico o il grisbi. Becker qui rischia moltissimo, e lo fa nel più sfacciato dei modi: dopo cinquanta minuti di cinema puramente fenomenologico, di fatti concreti, sceglie invece di filmare il pensiero di Max, e lo fa attraverso due brevi monologhi interiori. L’espediente, che può convincere o meno, è estremo, proprio perché sembra contraddire l’impostazione stilistica della messa in scena, e quest’asprezza per l’appunto va proprio a sottolineare (consapevolmente?) lo scarto a livello narrativo: mentre finora abbiamo assistito a un racconto puramente comportamentale, privo di qualsiasi risvolto “psicologico”, in cui non si chiedeva ai personaggi né di evolversi né di fare delle scelte, qui per la prima volta Max si trova invece davanti a un dilemma, e il racconto acquista appunto una dimensione per così dire “morale”. Come scriveva già Jacques Doniol-Valcroze all’uscita del film: “Il monologo interiore di Max quando scopre il rapimento di Riton ha causato qualche risata in sala, ma azzarderei che si è trattato di un riso nervoso, commosso, a un passo dalle lacrime” (“L’Observateur”, 25 marzo 1954).
Proprio in questa scena, fra l’altro, torna il tema musicale del film, introdotto fin dalla prima apparizione del protagonista, ripreso poi nella scena in cui Max mostra il grisbi a Riton e usato ora per commentare la scelta che Max si trova a dover fare: in un tessuto narrativo crivellato di apparenti divagazioni, il motivo musicale sembra innanzitutto tenere insieme i tre elementi basilari del dramma (Max, Riton, il grisbi), e con la stessa funzione riapparirà ancora nella scena dello scambio, in cui appunto commenterà le tre inquadrature che sanciscono la rinuncia di Max al bottino pur di avere indietro l’amico sano e salvo.
Proprio la resa dei conti finali, fra l’altro, si propone come definitivo banco di prova per tutte le strategie sia narrative che stilistiche fin qui individuate. Intanto la dilatazione temporale: su 96 minuti complessivi, la scena ne occupa addirittura 13, per un totale di 131 inquadrature. Sicuramente il ritmo di montaggio è accelerato rispetto al resto del film, specie durante le sparatorie (la durata media di un’inquadratura è di circa 6 secondi, contro una durata abituale di 9), eppure a differenza di quanto avrebbe fatto magari un Hitchcock o un qualsiasi hitchcockiano, il montaggio non sembra particolarmente interessato a giocare con inserti o punti di vista che accrescano la tensione verso il momento culminante. La suspense è innescata all’inizio, quando vediamo le bombe in mano agli uomini di Angelo, ma come al solito Becker la lascia poi decantare, prediligendo i tempi lunghi. La macchina da presa, ancora una volta, sembra limitarsi a registrare gli eventi, senza enfatizzarli e mantenendo piuttosto la distanza, mentre anche il montaggio si limita a esporre, disponendo le immagini secondo un ordine logico, con particolare attenzione alle simmetrie. Anche la scena “madre”, pur con i suoi picchi di violenza, è insomma riconducibile a quell’impostazione fenomenologica, comportamentale, qui addirittura antropologica, di cui si è detto.
Il finale stesso, così intenso e pure così pudico, non fa che confermare questa lettura: dopo aver lasciato Riton alle cure di un’infermiera, Max per crearsi un alibi si reca al solito ristorante, dove ha fissato un appuntamento con una donna, Betty. Quest’ultimo personaggio, che in effetti compare in due soli momenti e sembra quasi ricoprire una funzione marginale, necessita senz’altro di qualche puntualizzazione. Il tema fondamentale del racconto prende le mosse dall’amicizia fra Max e Riton, motivo tipicamente beckeriano (oltre che, va da sé, tipicamente hawksiano). Che ruolo hanno allora esattamente le donne in un’impostazione simile? Il film – inutile girarci intorno – è intriso in questo senso di una certa misoginia. Josy, amichetta di Riton dedita alla cocaina (dettaglio scomparso nell’edizione italiana), è in effetti colei che “tradisce” le confidenze del proprio uomo (come farà poi Anne in Bob le flambeur), ma anche personaggi sostanzialmente positivi come Bouche e Marinette sono comunque guardati se non con diffidenza almeno con estraneità (in questo anche conformandosi alle convenzioni del genere, ci mancherebbe).
Il personaggio di Betty, come si diceva, ci appare però ancor più ambiguo. Non si capisce, intanto, fino a che punto sia una delle tante donne di Max o se invece non ricopra un qualche ruolo di rilievo nel suo piano pensionistico (è l’unica a non avere idea delle sue attività illecite). Ma quel che è più interessante è che, come il destino chiede a Max di scegliere fra Riton e il grisbi, così gli chiede anche di scegliere fra Riton e Betty. I due monologhi interiori, infatti, sono intramezzati proprio da un incontro erotico con lei: se prima di andarci a letto Max sembra deciso ad abbandonare l’amico, subito dopo torna sui propri passi. Come se il tempo trascorso con la donna gli avesse fatto saggiare la gravità del suo tradimento, anzi come se il sesso con Betty fosse già un tradimento vero e proprio verso Riton. La lettura omosessuale che tanto funziona con le amicizie virili di Hawks, in altre parole, è già più che prevista in Becker. E il finale, appunto, non fa che rincarare la dose.
Dopo il primo incontro, mentre Max già pensava a Riton, Betty gli aveva chiesto “mi vuoi bene, Max?”, e il suo “eccome” di risposta non era sembrato particolarmente convincente, anche perché di fatto gli amanti non si trovavano mai nella stessa inquadratura, quasi a suggerire una sopravvenuta distanza fra i due. Quando nel finale, dopo aver perso il grisbi, Max scopre di aver perso anche l’amico, morto per le ferite riportate, la situazione che si ripresenta è sostanzialmente simile (e infatti, in chiusura, torna anche il tema musicale collegato): di nuovo, l’unione fra Max e Betty si rivela irrealizzabile, tanto quanto lo sono, appunto, i desideri di normalità di Max.
Tanto pudore, tanta fede nell’amicizia, ma anche tanta attenzione per la forma, tanta renoiriana distensione: impossibile non pensare a Grisbi come a un “film d’altri tempi”, etichetta vaga e insieme precisa (e che, prevedibilmente, troverà d’accordo le nostre amiche femministe). Un film di storia (storie) prima che di intenzioni, perché, in fondo, a Becker non interessa nemmeno tirare le fila e proporre una qualche morale. Ci sono solo dei personaggi che hanno delle proprie convinzioni su come vivere la propria vita, e queste convinzioni vengono messe alla prova da un universo tanto ricco e complesso da assomigliare al nostro. Allora questi personaggi prendono delle decisioni, non sappiamo se giuste o sbagliate, e affrontano poi le conseguenze, spesso imprevedibili, di queste scelte. Tutto molto vero e molto bello.