lunedì 24 settembre 2012

Memorabilia (3)




Il cinema tedesco, stampato a Roma nell'agosto nel 1942, è una sorta di prezioso almanacco del cinema di regime, un who's who della produzione nazista di quegli anni. L'editore vero e proprio è la Germania Film, un ente nato come vedremo nel 1940 con lo scopo di promuovere un gemellaggio cinematografico sull'asse Roma-Berlino, ma quel che più colpisce è la curatela del volumetto affidata a un intellettuale italiano di un certo nome, vale a dire quel Giuseppe Marotta che già all'epoca collaborava con pubblicazioni come “Il Corriere della Sera” e “Film” e che, accanto a occasionali incursioni in sceneggiatura, fungeva appunto in quegli anni anche da “capo ufficio stampa” per la Germania Film.
Il sommario del volume è presto riassunto: dopo due inquietanti ritratti a tutta pagina del dott. Joseph Goebbels e del consigliere ministeriale dott. Fritz Hippler, una nota riassume lo statuto e gli scopi intorno a cui si informava l'attività della Germania Film, che come ci spiega l'articolo L'organizzazione industriale della cinematografia germanica si inseriva naturalmente in una più ampia politica culturale della cinematografica tedesca, ormai completamente nazionalizzata e controllata attraverso la UFA. (Quest'ultimo testo era peraltro già apparso, con la firma di Antonio Latanza, sul n. 138 della rivista “Cinema”, 25 marzo 1942). Segue un agile dizionario illustrato di registi e attori tedeschi, strumento in verità ancora oggi piuttosto utile, anche perché ci fornisce un compendio della carriera di personalità come Helmut Käutner e Willy Forst inquadrate nell'ottica del loro tempo.


Ma, al di là del valore collezionistico, ci sono tutta una serie di domande che questo volume non può non sollevare: quale fu, effettivamente, la circolazione e la diffusione del cinema nazista nell'Italia fascista? Quale la posizione degli intellettuali, critici o cineasti che fossero? Quale, infine, la ricezione del pubblico, prima e dopo l'8 settembre? Domande cui non è facile rispondere, non esaustivamente, e con cui non mi sembra molti storici si siano adeguatamente confrontati.
Intanto va precisato che la produzione tedesca, anche prima dell'avvento nazista, fu naturalmente una delle prime in Europa, e il numero di film immessi sul mercato italiano fu sempre abbastanza rilevante, con una media di 35-50 titoli già nei primissimi anni del sonoro. Fra le altre, suscitarono inoltre da subito una notevole impressione opere come Ragazze in uniforme (premiato a Venezia 1932) e Il congresso si diverte, e non mancarono già allora collaborazioni, co-produzioni e doppie versione italo-tedesche, favorite anche dalle carriere parallele condotte in Italia e Germania da registi come Carmine Gallone e Nunzio Malasomma. È dall'accordo politico del 1936, comunque, che tali collaborazioni si infittirono, tanto che già nel dicembre di quell'anno venne fondata la Tobis Italiana, che avrebbe poi agevolato operazioni come Condottieri e da cui più tardi sarebbe appunto nata la Germania Film.
Se però andiamo a vedere i numeri concreti, non mi sembra che tutto questo provochi istantaneamente una moltiplicazione dei film tedeschi che circolano nelle nostre sale, visto che nonostante l'embargo (parziale) al cinema americano si dovrà attendere soltanto il 1941 per assistere a un reale incremento della quota di mercato riservata alle opere tedesche ammesse in prima visione, che in quell'anno raggiungerà quota 72 titoli (il doppio di quelli americani). Ma, anche qui, non è così facile valutare il reale intervento propagandistico della Germania Film, visto che per il momento i vari film escono per le società di distribuzione più disparate (ENIC, Artisti Associati, Minerva), e non sembra ancora propriamente consolidato quel regime monopolistico che viene invece annunciato nell'agosto 1942 a favore della Film Unione, direttamente controllata dai nazisti e citata infatti nel volume di Marotta come unico noleggiatore italiano autorizzato. Nei primi mesi del 1942, per esempio, un film notevole (e sottilmente amaro) come Arrivederci, Francesca! di Helmut Käutner era ancora distribuito da Manenti, mentre l'attività della Film Unione pare assumere un peso decisivo soltanto dai primi mesi del 1943, quando inizia davvero a monopolizzare la circolazione dei prodotti tedeschi, lasciando nelle mani di Scalera e Generalcine solo qualche fondo di magazzino delle stagioni precedenti. Non è evidentemente facile ricostruire le traversie cui andrà incontro la programmazione cinematografica nei mesi successivi, visto che persino il materiale censorio è spesso lacunoso, ma sulla scorta dei dati più o meno certi, è comunque ragionevole supporre che fra il 1943 e il 1944 la Film Unione abbia distribuito (o cercato di distribuire) almeno 49 titoli, compresi fra gli altri Il grande re e La tragedia del Titanic. Un listino, in ogni modo, ben lontano dalla quota di mercato raggiunta nel 1941, che resta in questo senso l'anno di massima diffusione del cinema nazista in Italia.
Altrettanto ambiguo è anche il rapporto con la stampa e la critica specializzata, visto che per i film tedeschi del periodo viene spesso adottata una duplice linea editoriale: nelle manifestazioni più o meno ufficiali non manca mai un riconoscimento alle doti se non altro tecniche del cinema tedesco, così come non mancano lunghi editoriali sulla comune missione “civilizzatrice” della produzione italiana e tedesca, ma se poi andiamo a vedere le recensioni pubblicate su “Cinema” all'uscita in sala dei singoli film ecco che il discorso si fa più contraddittorio. Critici militanti (e futuri cineasti) come Giuseppe De Santis e Carlo Lizzani, pur fra mille elogi programmatici, non rinunciano infatti talvolta a (caute) stroncature di produzioni importanti come La città d'oro (“fredda, banale e fastidiosa”) e Annelie (“grande lentezza e monotonia”). Rimane celebre, è vero, la corrispondenza da Venezia di Michelangelo Antonioni su Jud Süss, in cui si parla di “consistenza artistica palpitante” (“Cinema”, n. 102, 25 settembre 1940), ma su molti altri film, nonostante le veline di regime, il giudizio almeno estetico rimane insomma in fin dei conti abbastanza “indipendente”. Tanto che, persino in un articolo apertamente propagandistico (Un anno di cinematografia tedesca, “Cinema”, n. 148, 25 agosto 1942), tale Vincenzo Bartoccioni può permettersi fra le righe una annotazione – per noi preziosissima – sull'accoglienza che il pubblico italiano effettivamente riservava a molti dei film tedeschi che gli venivano proposti:
Avviene spesso che il nostro pubblico, vale a dire quello di un popolo meridionale e latino, riscontra nei film tedeschi una certa pesantezza che provoca alle volte un senso di tedio, anche se il film che si proietta contiene dei valori effettivi. Una delle cause di questo fenomeno mi sembra che sia da attribuirsi all'eccessiva lunghezza dei dialoghi, che spesso fanno del cinema tedesco un vero e proprio teatro filmato.
Un ultimo cenno, infine, alla demonizzazione che colpì la produzione nazista nell'immediato clima post-Liberazione. Processo di negazione e rimozione comprensibilissimo ma forse non così radicale come si potrebbe credere, se è vero che diverse società di distribuzione si affrettarono a rinnovare il visto censura per alcuni film tedeschi già distribuiti con un certo successo (per esempio Anuschka, ancora del benemerito Helmut Käutner, ma anche Il perduto amore di Veit Harlan). Un'altra delle tante ambiguità dell'epoca, che ben si rispecchia in un curioso scambio epistolare apparso il 19 gennaio 1946 sulle pagine di “Star”, in cui un lettore “nostalgico” arrivava a lamentarsi dello scarso rispetto tributato a quelle opere che, nel bene come nel male, avevano comunque segnato un'intera epoca:
Un lettore che tiene a conservare l'incognito, firmando con una semplice lettera D, ci rimprovera di aver definito i film tedeschi mediocri e noiosi in un nostro articolo apparso sul n. 46 di “Star”. Il lettore definisce quei film pari ai migliori americani e ci dice che se fossimo stati a Milano durante l'occupazione tedesca avremmo potuto sincerarci della bontà della sua affermazione. “Il barone di Munchausen, Perduto amore e La città d'oro – prosegue il lettore – rivelano un'arte da noi mai raggiunta”. Abbiamo avuto il tempo di vedere La città d'oro e cento altri film tedeschi, né crediamo che Munchausen e Perduto amore contengano soli tutte quelle belle qualità che l'anonimo lettore ci rimprovera di aver trascurate e negate. La città d'oro ce l'abbiamo ancora sullo stomaco. A parte alcune piacevoli inquadratura di Praga e la corsa a cavallo sui prati e la scena notturna della seduzione, noi crediamo che il regista Veit Harlan abbia sciupato parecchia pellicola. Ci dica il nostro contraddittore cos'altro c'era di buono in quel film: forse le scampagnate sulle rive del fiume? O gli interminabili interni della casa di Tony o il festino nuziale o la ricerca della protagonista ch'è andata a suicidarsi? Queste cose ci sono rimaste sullo stomaco e ci rifiutiamo di crede che possano esser piaciute a uno spettatore di buon gusto. I registi tedeschi, ambiziosi come erano, usufruivano spesso di grossi soggetti che rovinavano con la loro pretenziosa sapienza. Ricorda il lettore cos'è accaduto del Viaggio a Tilsit? Ha visto il lettore Titanic di Dupont e il Titanic di Herbert Selpin? E i film del prof. Froelich, non erano dunque noiosi? È bastato che Froelich diventasse un gerarca del partito nazista perché perdesse la forza drammatica che aveva dimostrato con Asfalto, con Ragazze in uniforme, con Jugend. Ma al tempo di Asfalto e di Jugend il cinema tedesco era ancora sotto l'influenza dei grandi registi israeliti: Lubitsch, Lang, Pommer, Czinner. Partiti gli ebrei da Berlino, il cinema tedesco era finito. Non è elegante dichiarare antipatiche Cristina Soderbaum, Brigitte Horney ed Hertha Feiler, ma perbacco, Ferdinand Marian, Hans Albers, Willy Birgel e Hans Sohnker lo erano. Si sente ancora in grado l'anonimo contraddittore milanese di darci torto?