mercoledì 24 ottobre 2012

McCareyana (1)


La storia di un uomo che porse l'altra guancia...
e si prese un pugno sul naso...



La mia passione per Leo McCarey nasce nel 2009, in occasione di un omaggio organizzato per I Mille Occhi. Una rassegna, composta da sette titoli, che partiva da un rapido sguardo al periodo muto (Big Business, 1929) per ripercorrere poi alcune delle commedie più originali e sorprendenti (Le campane di Santa Maria, 1945, Il buon samaritano, 1948) e chiudere con un assaggio delle ultime opere, solitamente liquidate come “anticomuniste” (Storia cinese, 1962). Pur conoscendo già qualcuno di questi film, fu proprio rivedendoli su grande schermo che rimasi definitivamente conquistato da questo regista, che a ogni nuovo lavoro mi sembrava tornare sugli stessi temi con un'energia e una ricchezza sempre nuove. In festival del genere, in cui praticamente si trascorrono intere giornate chiusi in sala, non è sempre facile trovare il tempo necessario per metabolizzare e apprezzare fino in fondo il singolo film, ma in compenso proprio questa full immersion nell'universo di un autore permette alle volte di cogliere quella coerenza sotterranea che può invece sfuggire a una visione più casuale e discontinua. Si tratta, beninteso, di una prospettiva che in qualche caso può anche esser falsante, ma che a ogni modo fornisce una prima immagine complessiva, di cui è poi possibile avvalersi in un lavoro di analisi più rilassato e approfondito.
McCareyano di fresca data, con gli occhi ancora pieni di tanto splendore, confesso di esser quindi rimasto piuttosto sorpreso nell'apprendere che una parte della critica anglosassone fatica invece ancora oggi a riconoscere al regista lo statuto di “Autore” con la maiuscola, cioè di artista in possesso di un proprio linguaggio e di un proprio mondo interiore sempre perfettamente coerenti. Si apprezzano, al contrario, molti dei singoli film (spesso partendo proprio dal meno personale, La guerra lampo dei fratelli Marx), ma si rinuncia a individuare una poetica comune dietro le centinaia di opere firmate (o non firmate) da McCarey. Il che, purtroppo, limita non solo la comprensione, ma anche l'apprezzamento di alcuni dei momenti più alti dei suoi capolavori. Prendiamo, per esempio, la scena di Un amore splendido in cui Cary Grant e Deborah Kerr si accomiatano dall'anziana Cathleen Nesbitt. Un attimo prima di vederli partire, la padrona di casa si mette al pianoforte e accennando una melodia dà vita a un piccolo intermezzo musicale, un momento tutto “interiore”, in cui il mondo esterno per un istante diventa soltanto un'eco lontana, fuori campo (come la sirena della nave in partenza). È chiaro che, se giudichiamo questa scena secondo le convenzioni (convenzioni) narrative imperanti, potremmo trovarla non dico inverosimile ma almeno poco probabile, cioè non del tutto rispondente alle nostre attese di spettatori hollywoodiani. Ma se invece conosciamo l'universo di McCarey e sappiamo quanto peso vi abbiano la musica, i pianoforti, gli spazi fuori dal tempo e i rumori fuori dalla scena, ecco allora che le scelte espressive acquistano un valore aggiuntivo, non solo perché entrano in rapporto dialettico con altre scelte simili in altri contesti simili, ma soprattutto perché siamo in grado di capire come il lavoro di un artista vada misurato innanzitutto con il metro della coerenza verso se stesso, e non verso convenzioni di maniera dettate dall'esterno.
Sono molti, indubbiamente, i tratti distintivi che in questo senso caratterizzano e definiscono l'opera di McCarey, riconoscibilissima non meno di quella di un Hitchcock o di un Fellini, ma stilarne un repertorio completo e dettagliato è un'impresa che va ben oltre le nostre attuali possibilità. Si tratta alle volte di semplici figure o ambientazioni ricorrenti, spesso vagamente autobiografiche (per esempio il mondo della boxe, frequentato in gioventù e recuperato per The Battle of Century, Belle of the Nineties e La via lattea), ma anche di motivi più complessi come quelli che ruotano intorno alla famiglia (Il buon samaritano, Missili in giardino), alla vecchiaia (Cupo tramonto, La mia via) o alla giustizia (L'orribile verità, Le mie due mogli), fino a certi personaggi ossessivamente presenti (padri di famiglia, anziani, sacerdoti, giudici) che si ricollegano direttamente ai grandi temi affrontati (l'accettazione dell'altro, la comunità, la progressione spirituale, la dignità, la fede). Senza dimenticare, ovviamente, tutto ciò che compete più strettamente al linguaggio, ovvero lo stile, fatto di dilatazioni temporali (basti pensare alle comiche di Stanlio e Ollio, praticamente inventati da McCarey), di registri diversi che si compenetrano (Cupo tramonto e Un grande amore sono commedie che fanno anche piangere o melodrammi che fanno anche ridere?), di un uso spesso sublime del fuori campo (il divano che cela l'infermità della Kerr nel già citato Un amore splendido, come anche l'altro divano che nasconde alla vista l'omicidio in Belle of the Nineties), di una musica quasi sempre “in scena” come elemento concreto dell'ambientazione (molte canzoni, fra l'altro, sono opera dello stesso regista), ma anche di un occasionale ricorso al silenzio che sembra prolungare fino agli anni Cinquanta la lezione del muto (alcuni dei momenti più esilaranti di Un amore splendido, come l'arrivo della nave a New York, sono costruiti esclusivamente sul gioco malizioso degli sguardi).
Nell'impossibilità di affrontare adeguatamente o anche soltanto di elencare tutti questi ingredienti, ho pensato per il momento di circoscrivere la trattazione ad alcune figure ricorrenti e del resto fondamentali, quelle cioè che ruotano intorno alla religione. Al tempo stesso, nel tentativo di riproporre la vertigine iniziale da cui è nato il mio interesse per McCarey, ho anche scelto di affrontare il discorso attraverso un accostamento di immagini e situazioni tratte dai film più diversi, in un esercizio critico che è forse più di montaggio che di scrittura, sintetico più che propriamente analitico.
Proprio per constatare la fondatezza di questa tesi autorialista, partiamo dunque dalla fase forse meno “personale” del nostro autore, cioè quel periodo che va dal 1933 al 1937 e che vede McCarey alle dipendenze della Paramount. Si tratta di film che molti hanno considerato “di transizione” nella misura in cui sembrano spesso costruiti soprattutto intorno alla presenza di attori comici di grande richiamo (i fratelli Marx, Mae West, Harold Lloyd), con poco spazio concesso all'iniziativa del regista. Lo stesso McCarey, che all'epoca delle comiche mute era sempre o quasi sempre autore delle proprie sceneggiature, qui si trova invece a lavorare molto spesso con copioni scritti da altri, che ben rispecchiano il gusto “East Coast” della Paramount di quegli anni, molto legata al teatro leggero e all'ambiente newyorkese. Ciò non toglie, naturalmente, che la proverbiale tendenza all'improvvisazione permetta comunque a McCarey di manipolare e personalizzare tutti quegli elementi che sente più vicini alla propria sensibilità. Un esempio perfetto, per tornare al fulcro del nostro discorso, è riscontrabile in Belle of the Nineties (1934), film apparentemente costruito su misura per la verve sboccata di Mae West, che risulta anche unica sceneggiatrice accreditata nei titoli di testa. Come in tutti i suoi copioni, anche qui siamo alle prese con una commedia musicale in cui una vamp mangia-uomini si trova a dover maliziosamente scegliere fra più aitanti pretendenti, casomai incrociando nel frattempo intrighi e delitti. Nel caso in questione, si tratta infatti di una cantante da night club che, dopo aver rinunciato a un giovane pugile per non comprometterne la carriera, se lo ritrova a New Orleans, invischiato in un giro di incontri truccati e diamanti rubati. C'è da dire, per la verità, che con il consolidarsi delle norme di autocensura (il famigerato Codice Hays, in vigore proprio dal 1934), le avventure della West si addolciscono un poco, venandosi di un romanticismo più marcato che conduce casomai a finali redentori (si veda anche Klondike Annie di Raoul Walsh, 1936), ed è proprio in questa direzione che emerge bene quello che può essere stato l'apporto decisivo di McCarey. C'è una lunga scena musicale, nello specifico, che nasce proprio da precise scelte registiche e che, da sola, risolve in termini puramente cinematografici il tema della redenzione della protagonista: Ruby ha appena rivisto Kid e, in una delle sue tipiche gare d'astuzia, è decisa a fargli scontare ogni inganno subito, ma al tempo stesso -suo malgrado- sente anche risorgere l'amore per lui. È proprio mossa da questo sentimento quasi imprevisto che Ruby finirà per abbandonare la propria vita equivoca, e questa trasformazione incipiente è appunto suggerita attraverso il montaggio, che accosta la protagonista a un raduno religioso che si tiene in strada, poco lontano dalla sua finestra.
C'è chi ha interpretato questa scena come un semplice numero da vaudeville, una spiritosa parodia della tradizione afroamericana di New Orleans, ma se McCarey al solito non risparmia qualche ironia al fervore del pastore nero (“Che cosa ha fatto il Diavolo per noi? Niente!”), mi sembra evidente che lo splendido vitalismo delle immagini si traduce presto in una celebrazione dell'ingenua fede dei neri. È proprio attratta da questa esplosione di energia che Ruby si riavvicina a se stessa, getta la propria maschera di vamp e, per una volta, dà voce ai propri sentimenti più intimi. (Da notare l'abito “floreale”, indossato solo in questa scena, che sembra richiamare il rampicante del balcone, quasi a suggerire una nuova sintonia con la Natura.) La canzone che dà voce al turbamento di Ruby, Troubled Waters, nasce e si compenetra allora con il coro dei fedeli, da cui riprende e sviluppa i temi della redenzione e dell'innocenza.

Oh, I'm gonna drown/down in those troubled waters
they're creeping round my soul/they're way beyond control
and they'll wash my sins away before morning.
They say that I'm one of the Devil's daughters
they look at me with scorn./I'll never hear that horn
I'll be underneath the water Judgement morning.
Oh, Lord, am I to blame?/Must I bow my head in shame
if people go round scandalising my name?
(Oh, sto per annegare/in queste acque turbolente
formano un vortice intorno alla mia anima/sono fuori controllo
e prima di mattina avranno lavato via i miei peccati.
Dicono che sono una figlia del Diavolo
mi guardano con disprezzo./Non ascolterò mai quella chiamata
perché il giorno del Giudizio sarò già sott'acqua.
Oh, Signore, sono da biasimare? Devo abbassare il capo con vergogna
solo perché la gente va in giro a sparlare di me?)
C'è tutto il peso della colpa, il senso di perdizione (l'annegamento), ma al tempo stesso un'ansia di rinascita, di resurrezione, tanto che le acque “turbolente” sembrano invocare una sorta di battesimo purificatore (e infatti, dopo essere scampata al solito rogo conclusivo, Ruby finirà sposata, in una ovvia progressione logica, di sacramento in sacramento). Le due immagini del fuoco e dell'acqua, non a caso, tornano vividissime nella scena della funzione, ma quel che è più stupefacente è il modo in cui, tramite il montaggio e le sovrimpressioni, il singolo (Ruby) e la collettività (i neri) finiscano da ultimo per fondersi in una sola immagine, con un senso di comunione che diventa per l'appunto sintesi di questo intimo percorso verso la redenzione.
Se qui il discorso resta però ancora confinato ai margini e risolto in termini strettamente linguistici, nei film di cui McCarey è autore completo (soggetto-produzione-regia) la spiritualità acquista un'importanza sempre più evidente, connotando anche i personaggi e gli snodi narrativi in primo piano. Un esempio (duplice) è il dittico composto da Un grande amore (Love Affair, 1939) e il suo remake, Un amore splendido (An Affair to Remember, 1957), che pur raccontando la più classica delle storie d'amore sono anche opere pervase da una visione profondamente spirituale dell'esistenza umana. Si tratta peraltro di un esempio di auto-rifacimento talmente fedele che accostare i due testi, come dicevamo, significa davvero lasciar emergere una rete di corrispondenze che va ben oltre la semplice “copia”.
Durante un viaggio in nave verso gli Stati Uniti, un uomo e una donna si incontrano e, pur essendo entrambi già impegnati, non riescono a soffocare il sentimento autentico che sentono nascere dentro di sé. Approfittando di una tappa della crociera, i due si recano a trovare la nonna di lui, un'adorabile vedova che ormai si è ritirata dal mondo e non aspetta altro che la morte per riunirsi al marito. Qui, visitando la piccola cappella privata della signora, i due protagonisti si trovano anch'essi al cospetto di se stessi, lontani da ogni contingenza, e per un attimo non hanno più nulla da nascondersi, ma devono fronteggiare i grandi interrogativi della vita. Entrambi si riconoscono allora per quel che sono, due perdenti, due artisti falliti che non si sono mai davvero messi alla prova e che adesso, per interesse, sarebbero anche disposti a rinunciare ai propri sentimenti pur di salvaguardare i rispettivi matrimoni di convenienza. Se per Belle of the Nineties potevamo ancora parlare, forse un po' impropriamente, di “redenzione”, qui non è tanto in discussione il peccato o l'errore dei protagonisti (verso cui, anzi, McCarey ha da subito dimostrato calorosa simpatia), ma il raccoglimento nella cappella diviene momento di elevazione spirituale soprattutto perché i personaggi si allontano per un istante dalla dimensione quotidiana per guardare dentro di sé. E la sirena della nave, destinata a rompere quell'idillio, diventa così anche una sfida: trasportare quel momento di ascesi nel mondo concreto di tutti i giorni.
Paul Vecchiali ha suggerito che, specie nel remake, la sequenza della visita alla nonna avrebbe quasi un carattere di viaggio nell'aldilà, con la vecchia donna ridotta a poco più di un'ombra. Già nell'originale, del resto, la vedova salutava i due innamorati senza mai varcare la soglia del suo giardino: “Qui è fin dove posso arrivare. Questo è il confine del mio piccolo mondo”. Al che Terry le rispondeva: “È un mondo perfetto. Grazie per avermelo lasciato visitare”. Questo microcosmo armonioso, che somiglia in tutto e per tutto a un piccolo paradiso, resta però soltanto una breve sosta nel percorso dei personaggi, proprio perché il lungo viaggio che li attende non prevede ancora pause mistiche.
Terry: Mi piacerebbe restare qui per sempre.
Nonna: Ma lei è ancora così giovane. Questo è senz'altro un bel posto per sedersi e ricordare. Ma lei deve ancora costruire i suoi ricordi.
Il paradiso, in altre parole, va guadagnato, costruito sulla terra giorno per giorno. Quella serenità intravista deve essere una meta, non un oggetto di contemplazione. I protagonisti lo capiscono talmente bene che decidono allora di concedersi un'altra possibilità per essere felici: stabiliscono che ognuno dei due cercherà la propria strada da solo, rinunciando a facili scorciatoie, e fra sei mesi si ritroveranno per mettersi alla prova. Il luogo dell'appuntamento sarà l'Empire State Building, perché come spiega appunto Terry “è la cosa più vicina al paradiso”. Questa tensione anche figurativa verso l'alto, sottesa a molti film del regista, traduce in immagini una dialettica continua fra cielo e terra, che trova l'altra sua espressione più tipica proprio nel proliferare di piccoli paradisi terrestri.
McCarey aveva addirittura progettato per anni un suo film su Adamo ed Eva (ironicamente citati anche in Le mie due mogli), ma a prescindere da ogni riferimento esplicito il suo è un cinema in cui l'iconografia classica dell'Eden si ripresenta spesso dissimulata sotto altre vesti. Quel che è importante sottolineare, soprattutto in relazione al dittico La mia via/Le campane di Santa Maria (1944-45), è però proprio l'ossimoro su cui si basa la stessa espressione paradiso terrestre: un luogo celestiale eppure terreno, in cui lo spirito non può fare a meno della materia. McCarey, da cattolico, concepisce infatti il cristianesimo come una religione “mondana”, che ha bisogno di confrontarsi costantemente con la Realtà, casomai per redimerla, ma innanzitutto per accettarla come dato di fatto, come punto di partenza e condizione necessaria per raggiungere la Salvezza. I giardini coltivati dai suoi sacerdoti, di conseguenza, finiscono immancabilmente per essere attraversati e minacciati da ladri di polli, speculatori, attaccabrighe e persino militanti comunisti, ma queste “contaminazioni” sono inevitabili, nel senso che fanno parte della natura stessa della vita su questa terra. I giardini sono aperti a tutti, non esiste confine fra sacro e profano, proprio perché nessun comportamento esula dalla sfera dell'umano. Coltivare un paradiso in terra, insomma, non è un modo per fuggire dal mondo, ma un modo per prepararsi ad accoglierlo.
Strettamente connaturata a questa visione di un cattolicesimo “mondano” (o “intramondano”) è anche la rappresentazione che McCarey ci restituisce dei suoi sacerdoti. I due film dedicati a padre O'Malley non raccontano soltanto le divertenti avventure di un parroco progressista, né si riducono come qualcuno vorrebbe a un'operazione simpatia a favore della comunità cattolica americana. C'è qualcosa di più radicale, infatti, nella scelta di affrontare tematiche così delicate attraverso i codici della commedia romantica e dello slapstick puro. Una prima conseguenza, la più ovvia, è che preti e suore per una volta si presentano sullo schermo privi di qualsiasi alone “sacro”: uomini e donne che mangiano e bevono come noi, con lo stesso piacere, che giocano a golf (barando) e a baseball (rompendo finestre), che sanno essere orgogliosi del proprio lavoro e anzi faticano non poco ad accettare imposizioni dall'alto (non importa quanto in alto). Esseri umani non privi, peraltro, di una propria sessualità: O'Malley, nel primo film, ritrova la donna che ha amato in gioventù, e quando canta con trasporto The Day After Forever possiamo senz'altro indovinare come anche lui abbia sperimentato le gioie dell'amore; mentre il secondo film, addirittura, non si fa problemi a suggerire l'attrazione che si instaura fra un prete e una suora che vivono e lavorano insieme, come marito e moglie, anche se poi naturalmente l'amore resterà del tutto platonico, ed entrambi rinunceranno ai propri sentimenti nell'interesse collettivo, come se la coppia venisse riassorbita in una sacra famiglia più ampia. Ma al di là di tutto questo, che già sarebbe notevole, è l'impianto slapstick quello che colpisce ancora oggi, proprio perché la “commedia degli imbarazzi” tipica di McCarey non si fa scrupoli e non mostra nessuna deferenza davanti all'abito talare: si veda per esempio la scena, esilarante, in cui la suora Ingrid Bergman prova a insegnare a un ragazzino come si tira di boxe e durante la lezione si becca un destro in piena faccia. La protagonista, una donna di chiesa, finisce in pratica per essere usata come un sacco da pugilato... La questione, vista in un'ottica religiosa, è molto più delicata di quel che si potrebbe pensare. Nel suo celebre saggio, Il riso, Bergson riporta fra gli altri l'esempio dell'oratore che, nel bel mezzo di un sermone, prorompe in un sonoro starnuto, e l'effetto risulterebbe comico perché “richiama la nostra attenzione sul fisico laddove ciò che è in causa è morale”, cioè perché si crea una frattura fra spirito e materia. Al contrario, per McCarey la genialità del cristianesimo sta proprio nel suo essere una religione incentrata sulla carne, in cui non c'è frattura ma dialogo fra fisicità e spiritualità: un prete con il culo a mollo non perde una briciola della propria dignità, proprio perché il suo essere ridicolo non gli impedisce di essere umano, quindi a immagine e somiglianza di Dio. La messa in scena, ancora una volta, insiste non a caso sulla fisicità, sul peso dei corpi, e questo fin dalle primissime apparizioni di padre O'Malley.
Nel primo film, giocando ancora una volta con il fuori campo, McCarey ci fa inizialmente ascoltare solo la voce del prete (che sarebbe poi quella di Bing Crosby, uno dei cantanti più famosi d'America), che ha smarrito la strada per la parrocchia e si ferma a chiedere indicazioni. La sua prima apparizione in campo è dal punto di vista della casalinga che gli risponde arcigna dalla finestra, quindi dall'alto, con una prospettiva che schiaccia verso il basso questa “voce fatta corpo”, accentuandone la dimensione terrena (da notare anche l'illuminazione, particolarmente plastica). Altrettanto azzeccato, nel sequel, è l'arrivo di O'Malley a St. Mary's: come prima cosa si appoggia a una parete e non si accorge che, col suo peso, sta azionando la campanella della scuola, scatenando il panico nelle classi; subito dopo, presentandosi alle suore riunite per l'occasione, si siede distrattamente su una sedia e finisce per schiacciare il loro amato gattino domestico (che subito dopo, chiaramente, si prenderà la sua vendetta). L'imbarazzo, in entrambi i casi, nasce proprio dal corpo, dalla sua incapacità di coordinarsi con l'ambiente circostante, ma al tempo stesso anche il percorso di comunione non può che nascere da qui, da questo incontro di corpi, dunque di anime. La “commedia degli imbarazzi” di McCarey, il sorriso affettuoso che ne scaturisce, sembra volerci ricordare proprio questo: caro cardo salutis, la carne è il cardine della salvezza.

Nonostante l'accoglienza trionfale riservata a entrambi i film, che ottengono anche un totale di otto Oscar, McCarey rifiuta di tornare a lavorare una terza volta su padre O'Malley, concentrandosi piuttosto sulla preparazione del suo Adamo ed Eva, che come dicevamo non troverà purtroppo mai una forma compiuta. L'ultimo suo film, Storia cinese (1962), recupera però qualcosa di entrambi i progetti, combinando insieme molti degli elementi che abbiamo analizzato fin qui. Si tratta di un'opera di cui non è facile parlare, soprattutto perché il risultato finale, che non soddisfaceva lo stesso regista, sconta tutta una serie di intromissioni e incomprensioni con la produzione e con gli stessi collaboratori (William Holden in testa), che portarono addirittura McCarey ad abbandonare il set durante l'ultima settimana di riprese. Lo stesso finale, per intenderci, risulta pesantemente adulterato rispetto a quello originario voluto dall'autore, che avrebbe invece previsto il sacrificio del protagonista (e che scatenò, neanche a dirlo, le proteste di Holden). Ciò non toglie, però, che la mano invisibile del l'autore sia presente in ogni inquadratura, e che proprio per questa sua parziale “incompiutezza” il film ci parli con una sincerità e una lucidità che mettono persino a disagio.
Ambientato nella Cina del 1949, il racconto ruota intorno a due missionari cattolici che si ritrovano a dover fare i conti con l'avanzata dell'esercito comunista, in cui nel frattempo si è arruolato anche un ex discepolo della missione, Ho San, disposto adesso a imporre con la violenza la sua nuova dottrina socialista. Nel consueto alternarsi di dramma e farsa, McCarey sceglie insomma di confrontarsi con la Storia riconducendola come sempre al livello basilare dei rapporti umani, accarezzando ancora una volta quelle figure che gli sono care, ma stavolta l'operazione punta ancora più in alto. Il tema fondamentale che ne scaturisce, spinosissimo, è infatti quello annunciato già dal titolo originale del film, Satan Never Sleeps (“Satana non dorme mai”): perché la Storia deve invariabilmente essere scritta con il sangue degli innocenti? Perché Dio (se esiste) permette la sofferenza dell'uomo? E, soprattutto, come può un cristiano rapportarsi alla violenza della Storia? Deve prenderne le distanze, scenderci a patti o affrontarla ad armi pari? Va da sé che la grandezza del film non consiste certo nel fornirci risposte astratte o preconfezionate, quanto piuttosto nella capacità di calare queste problematiche all'interno di una realtà complessa e travagliata, componendo un grande affresco dell'esistenza umana. È vero, McCarey è un anticomunista, e dei più agguerriti, ma è anche disposto a rimettere in discussione con la stessa ferocia tutto quello in cui crede, senza fare sconti a nessuno, nemmeno a se stesso, ed è proprio in questa onestà intellettuale che risiede il suo massimo pregio.
Lo schema dei personaggi, come accennavamo, recupera quello dei film con padre O'Malley. Anche in questo caso un giovane prete irlandese, O'Banion, affianca dunque un vecchio sacerdote dai modi burberi, padre Bovard, ma qui la situazione è complicata dal ritorno di Ho San, una specie di rinnegato della fede, quasi un prete spogliato. Il rapporto fra lui e O'Banion, curiosamente, è di natura speculare, perché più che antagonisti i due personaggi sono in pratica risposte diverse al medesimo interrogativo: ammesso che quella cristiana è una religione “mondana”, quanto è legittimo, per un credente, prender parte alla Storia? Quanto peso va concesso alle passioni terrene se, in fondo, la nostra esistenza dev'essere proiettata soprattutto verso un fine ultraterreno? Ho San, davanti alla Rivoluzione, ha deciso di giocarsi tutte le carte qui su questa terra, rigettando la propria vocazione religiosa, mentre invece O'Banion, pur fra mille incertezze, continua a vestire l'abito sacro, quindi a confrontarsi con la realtà senza perdere di vista la propria dimensione spirituale. In fondo entrambi coltivano una profonda fede nella possibilità in un mondo migliore, solo che hanno scelto strade opposte per arrivarci.
Il confronto fra i due, fra l'altro, è complicato proprio da quella dimensione individualistica a cui entrambi -in teoria- dovrebbero rinunciare in nome della propria dottrina comunitaria. Lo scontro si accende infatti anche a livello personale quando entra in gioco una ragazza dal carattere vivacissimo e indipendente, Siu Lan, oggetto del desiderio tanto per l'uno quanto per l'altro. Lei in realtà è innamorata perdutamente di padre O'Banion, per cui nutre un sentimento adolescenziale, purissimo, che il sacerdote non può però apertamente ricambiare. Non di meno, l'attrazione sotterranea che O'Banion prova per questa ragazzina selvaggia, quasi una piccola Eva, rispecchia anche la sua costante tentazione di intervenire nella Storia, il desiderio di rinunciare ai voti per misurarsi alla pari con la violenza del mondo. Una sola volta la sua fede sembra davvero vacillare: quando Ho San importuna Siu Lan e lui corre a salvarla. Sbattendogli in faccia la sua “stupida religione”, il comunista allora lo schiaffeggia, invitandolo a porgergli l'altra guancia: “Il buon cristiano rifiuta la violenza. Ora vediamo come metti in pratica la tua religione”. Quando O'Banion, esasperato, finisce per battersi con lui, non possiamo che domandarci: è ancora il sacerdote che agisce, o è l'uomo innamorato?
Il vecchio missionario, padre Bovard, in tutto questo ci appare invece come una creatura che ha ormai rinunciato a qualsiasi intervento diretto sulla realtà, abbandonandosi nella mani della Provvidenza. “Tutto accade per il meglio” ama ripetere. Anche con lui, con la sua presunta “saggezza”, McCarey non è affatto tenero: ne fa uno spettatore passivo, incapace peraltro di comprendere molti degli eventi che gli ruotano attorno. Questo emerge, in particolare, nella scena più atroce del film, quella in cui Siu Lan viene stuprata da Ho San. O'Banion, trattenuto a forza dai soldati, può soltanto assistere impotente, mentre sotto i suoi occhi un'innocente sconta sulla propria pelle la violenza della Storia. Bovard invece nel frattempo dorme, senza accorgersi di niente, e il primo piano che McCarey gli dedica è qualcosa come un grido di dolore: anche Dio, quella notte, dormiva? Il mattino dopo, come non bastasse, lo stesso Bovard -ignaro di tutto- rassicura la giovane Siu Lan sui piani imperscrutabili della Divina Provvidenza, e McCarey, con perfidia sottile ma implacabile, ci mostra subito dopo un soldato che frantuma gli occhiali del prete: com'è possibile salvare delle anime se non si vede nemmeno quel che accade sotto i propri occhi?
Ma è qui che, senza scadere nell'opera a tesi, il film si libera di qualsiasi schematismo e lascia procedere i personaggi per la propria strada, senza negare a nessuno la propria umanità, cioè la possibilità di dimostrarsi diversi da quel che si è stati. “C'è del buono in tutti”, aveva detto Bovard, e sta all'imponderabilità della vita dimostrarlo. I progetti che ciascuno aveva fatto per il proprio futuro vengono infatti puntualmente smontati e rimontati dal corso degli eventi, e ogni personaggio è costretto a confrontarsi con un assetto imprevisto della realtà, con un ordine nuovo e misterioso. L'uomo propone, e qualcun altro dispone. Siu Lan, rimasta incinta, dà alla luce il bambino che l'amore sterile per O'Banion non avrebbe mai potuto regalarle. Dalla violenza e dall'umiliazione, per assurdo, nasce la benedizione di una nuova vita, la possibilità di realizzare il proprio sogno di madre. Lo stesso Ho San, davanti a quel frugoletto che gli somiglia tanto, ha un istante d'incertezza, e si rende conto di essersi appena preso una bella responsabilità, di dover rinunciare alla carriera che tanto desiderava. Finito sotto inchiesta perché sospettato di spiccate simpatie cattoliche, decide allora di fuggire e portare con sé il bambino, la donna e i due preti. Tutto assolutamente imprevedibile, si direbbe, ma proprio qui sta la capacità del film di rappresentare senza enfasi e senza forzature l'imprevedibilità della vita. “Tutto accade per il meglio”, forse è vero, ma chi può stabilire in che cosa consista questo “meglio”?
Ricercati dall'esercito, i fuggitivi si trovano però a un certo punto inseguiti da un elicottero, senza più vie di scampo, ed è qui, infine, che il dilemma iniziale trova una possibile risposta: come si comporta un cristiano davanti alla violenza della Storia? Padre Bovard, che per tutto il film si è rifiutato di agire, sceglie di percorrere l'unica via possibile, il martirio: porgendo l'altra guancia, si sacrifica perché gli altri possano continuare a vivere. La sua morte, da testimone della fede, permetterà al bambino, attraverso il battesimo, di iniziare una nuova vita da cristiano, di portare avanti i suoi ideali.
Il nome scelto dalla mamma per il neonato è un capolavoro di ecumenismo e comunione: Ho-ban-yun. “Vuole mantenere sia il tuo nome che quello della mia famiglia”, spiega Ho San a O'Banion. Il bambino in altre parole ha due padri, uno “spirituale” (vergine) e uno biologico, è figlio dell'Amore ma anche della Violenza, del Cielo come della Terra. Il mondo, per McCarey, non può esistere che come un dialogo, ininterrotto, fra noi e l'Altro, fra lo Spirito e la Materia, fra il Dolore e la Salvezza. Nel sorriso un po' furbetto della madre, che ci fa addirittura l'occhiolino, c'è la determinazione di una donna che, fra mille sofferenze, ha imparato che tutto nella vita ha un senso, che ogni cosa prima o poi andrà al suo posto. La tormentata serenità di un Maestro.