giovedì 27 giugno 2013

Dolci inganni (1960)




Segnalo il nuovo approfondimento che ho dedicato a Dolci inganni (1960), film arcinoto per le vicende giudiziarie che ne hanno segnato il ritiro dalla sale. Meno conosciute, invece, sono forse le condizioni in cui Lattuada si era trovato a lavorare fin dall'inizio, barcamenandosi fra le revisioni del copione e i tagli sulla copia lavoro. L'articolo apparso su Visioni proibite approfondisce appunto questa zona d'ombra, recuperando anche parte del lavoro realizzato nel 2009 per la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, che aveva dedicato una bella retrospettiva completa a Lattuada.

lunedì 27 maggio 2013

Totò, Vittorio... e il Giro d'Italia

Segnalo il mini-video che ho dedicato al regista Mario Mattòli, in cui sottolineo brevemente alcune analogie fra due suoi film, Tempo massimo (1934) e Totò al Giro d'Italia (1948).




martedì 16 aprile 2013

Nel gorgo del peccato (1954)



Segnalo il mio approfondimento sulle vicende censorie che hanno coinvolto Nel gorgo del peccato (1954), un film di Vittorio Cottafavi che in pratica è arrivato sugli schermi oltre un anno dopo il passaggio in  censura. L'articolo è disponibile sul sito Visioni proibite e si basa, in larga misura, sul lavoro filologico svolto a suo tempo per l'edizione in DVD pubblicata da Ripley's Home Video (2012).



martedì 19 febbraio 2013

Memorabilia (5)




Il 19 febbraio 2013 Frank Tashlin avrebbe compiuto 100 anni. Peccato che pochi, non solo in Italia, sembrino interessati a ricordare questo artista poliedrico eppure così scandalosamente dimenticato: disegnatore di fumetti e cartoni animati (per Warner Bros, Ub Iwerks e Walt Disney), ma anche autore di due straordinari capolavori della letteratura per l'infanzia (L'orso che non lo era, 1946, e L'opossum che invece no, 1950), quindi sceneggiatore e regista per talenti comici come i fratelli Marx e Bob Hope, Tashlin resta oggi ricordato a malapena per il lavoro su Jerry Lewis, attore che nelle sue mani ha dato il meglio di sé (Artisti e modelle, 1955, Hollywood o morte!, 1956, Il ponticello sul fiume dei guai, 1958), sviluppando non a caso una comicità da disegno animato, che avrebbe poi fatto scuola per i vari Robert Zemeckis e Joe Dante. Ma non basta: con la sua attrazione/repulsione per la società di massa Tashlin è stato anche un ironico precursore della pop art, capace di volgarizzare l'arte astratta e riscattare al contrario la più volgare delle pin-up.
Non disponendo al momento dello spazio adeguato per affrontare la complessità della sua opera, mi limito se non altro a rendergli un minuscolo omaggio, riproponendo il press-book italiano d'epoca di una delle sue commedie meno viste, L'appartamento dello scapolo (1962).



Il soggetto del film 20th Century-Fox
[spoiler]

Come spesso accadeva, il press-book dell'epoca conteneva anche un articolo già bello e pronto, che veniva inviato ai quotidiani per essere pubblicato nella pagina dedicata agli spettacoli. Si trattava di testi promozionali con un taglio un po' ambiguo, a metà strada fra la recensione (chiaramente di parte) e l'articolo di colore, e la loro stessa collocazione era talvolta ingannevole, almeno nella misura in cui non era sempre così facile distinguerli dalle recensioni vere e proprie. Il linguaggio, a ogni modo, era talmente tronfio e magniloquente che avrebbe sicuramente fatto bella mostra di sé in una delle satire demenziali di Tashlin. 

Un articolo sul film della 20th Century-Fox
Appartamento dello scapolo
Il giovane attore americano Richard Beymer è oggi al centro dell'attenzione e della curiosità pubblica. Dopo aver dato infatti una buona prova delle sue doti recitative nel drammatico Il diario di Anna Frank, egli sta interpretando, sotto la regia di Martin Ritt, il ruolo di Ernest Hemingway nel CinemaScope Avventure di un giovane, attualmente in fase di realizzazione in Italia.
Accresciuta quindi, se possibile, è l'attesa per questo suo nuovo film, Appartamento dello scapolo, al quale partecipa in compagnia di altri bravi attori dello schermo.
Un record del buon umore, della bellezza, dell'allegria, va assegnato a questo CinemaScope a colori alla cui realizzazione ha presieduto una straordinaria abilità di accostare ironicamente i diversi elementi dello spettacolo. Frank Tashlin lo ha infatti diretto con il suo estro vivace e la sua maestria, tessendo la trama con mano leggera, esercitando una comicità schietta, un umorismo raffinato. Le più sottili sfumature psicologiche, i più maliziosi inganni d'amore e le più piccanti astuzie femminili, sono raccolti e fusi nel racconto di un'avventura posta all'insegna della gaiezza, della spensierata gioia di vivere e del fascino preponderante dell'amore.
Dell'intreccio ricco di interessi umani, Ta[s]hlin ha dipanato uno ad uno i fili avvincendo lo spettatore con un'arte così sottile e prelibata da destare ampia ammirazione.
Un dialogo frizzante, piacevole, una fotografia magnifica, la presenza di attori popolari, determinano il successo del film.
"Un gioiello del genere brillante", così è stato definito negli Stati Uniti questo spumeggiante spettacolo in cui il colore e il CinemaScope giocano un ruolo di grande importanza per quanto riguarda la definizione di una cornice entro la quale si inquadra una vicenda "spiritosa" ravvivata da tenzoni amorose e dalla ricchezza esuberante degli affetti umani dei protagonisti.
Sfolgoreggia nel film la deliziosa avvenenza di Tuesday Weld, un'attrice affermatasi recentemente anche in ruoli drammatici. Con lei, oltre al citato Richard Beymer, sono l'eccellente Terry-Thomas e la sempre graziosa Celeste Holm.

sabato 12 gennaio 2013

Duel at Sundown (1959)





Quella parte di cinema chiamata televisione non è soltanto una semplice regione, ma un autentico continente, che aspetta ancora oggi i suoi intrepidi esploratori. A sessant'anni dall'affermazione del telefilm realizzato in pellicola, non abbiamo infatti strumenti veramente efficaci per studiare e contestualizzare quei prodotti che, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, hanno progressivamente sostituito un'ampia fascia dell'allora florente consumo cinematografico. Non parlo, sia chiaro, di studi culturali sulla ricezione o altre amenità sociologiche, ma di guide critiche che possano esserci utili per orientarci in questa sterminata produzione, aiutandoci a distinguere il grano dal miglio, permettendoci così di salvare quel che c'è da salvare. Perché arriva, nella vita di ogni completista, il giorno in cui si rimpiange di non poter recuperare l'episodio di Wagon Train diretto da John Ford, o gli Screen Directors Playhouse di Leo McCarey, o persino i Johnny Staccato di Cassavetes, ma anche riuscendo a rintracciarli si aprirebbero del resto tutta una serie di interrogativi abbastanza problematici: come distinguere in ciascun caso l'apporto individuale dell'autore dalle premesse standard della serie? Ci vorrebbero una conoscenza e una documentazione che oggi non abbiamo, non a portata di mano almeno. E comunque, al di là di quegli Autori riconosciuti che si sono misurati con la formula del telefilm, la questione si fa ancora più insidiosa se scegliamo di occuparci dei cosiddetti professionisti televisivi: ammesso che la produzione seriale ha effettivamente rimpiazzato quella che nel cinema classico era la serie B, è allora possibile individuare dei registi “autori” all'interno dei palinsesti televisivi? Abbiamo delle personalità paragonabili ai vari Edgar G. Ulmer, Joseph H. Lewis, Jacques Tourneur? E quegli stessi giovani che negli anni Cinquanta avevano debuttato con film interessanti (per esempio il Gerd Oswald di Giovani senza domani, 1956), quando si sono poi dedicati quasi esclusivamente alla produzione televisiva sono riusciti a continuare un proprio discorso coerente o hanno rinunciato a qualsiasi ambizione personale? Sono domande, ben inteso, che non nascono da puntigli storiografici, ma si pongono piuttosto il problema del recupero e della valorizzazione di opere d'arte che magari rischiano di continuare a prender polvere ancora per decenni e decenni. Domande che nascono da incontri, del tutto casuali, con oggetti del passato, capaci però ancora oggi di intrattenere e affascinare. L'ultimo “incontro”, collegato alla visione di un episodio di Maverick (Duel at Sundown, incluso come extra nel DVD de Gli spietati), mi permetterà forse di spiegarmi meglio.

Iniziamo, com'è giusto, con due parole sulla serie, un western all'epoca molto popolare, di cui non a caso è stato poi più volte tentato il recupero a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, senza rinunciare nemmeno a una trasposizione cinematografica ad alto budget del 1994. I protagonisti sono due fratelli che si dedicano al poker per passione e professione, vagando da una città all'altra. Il taglio, rispetto ad altri telefilm simili, è però decisamente ironico e in alcuni casi anche apertamente parodico, soprattutto perché Bret e Bart Maverick sono fra i pistoleri meno eroici che si possano immaginare: costantemente mossi dal bisogno di denaro, non hanno nessuna vergogna a ricorrere ai trucchi più biechi pur di salvare la pelle e la borsa. Come non bastasse, non sono nemmeno particolarmente abili con la colt, per cui cercano in tutti i modi di evitare duelli e confronti diretti, preferendo piuttosto risolvere i problemi con una buona dose di astuzia e un pizzico di filosofia.
Proprio a queste premesse è direttamente riconducibile l'intreccio di Duel at Sundown, che infatti nasce da un soggetto di Howard Browne, collaboratore abituale della serie. Durante un viaggio “di lavoro” Bret si ferma a trovare un amico convalescente da una brutta caduta, Jed Christianson, e quest'ultimo approfitta della sua presenza per gettargli fra le braccia la figlia, Carrie, che si è innamorata di un perdigiorno del posto, tale Red Hardigan. Il padre teme che il giovanotto la corteggi soltanto per allungare le mani sul loro ranch, e spera che mettendola a stretto contatto con Bret sua figlia dimentichi l'infatuazione per Red. Lo spasimante, che è la pistola più svelta della contea, intima però allora indispettito a Bret di lasciare subito la città o accettare di sfidarlo a duello. Bret, allettato dalla ricompensa promessa da Jed, inscena allora un falso duello con il famoso John Wesley Hardin, diventando così in paese una specie di leggenda vivente. A quel punto Red, spaventato all'idea di affrontarlo, se la dà frettolosamete a gambe, mostrandosi anche agli occhi di Carrie per lo sbruffone che è.
Stringato al punto giusto, il racconto si adatta perfettamente al formato da 45 minuti, e soprattutto rispecchia fedelmente lo spirito ironico della serie: da bravo giocatore di poker, Bret non punta né sulla forza e nemmeno sulla fortuna, ma si tira fuori dai guai grazie a un autentico bluff. In questo senso, il telefilm si misura quindi con una mitologia western che negli anni Cinquanta era ancora ben radicata nel cuore del pubblico, proponendo però al contrario un eroe che gioca solo ed esclusivamente d'astuzia. Ma al di là di queste linee generali, l'episodio in sé si distingue anche per i ritratti dei due ragazzi, entrambi abbastanza interessanti. Carrie, interpretata da Abby Dalton, è una ragazza anticonformista e a suo modo indipendente, che ama andare a cavallo come un uomo e non sembra voler ascoltare ragioni da nessuno. È ancora una ragazzina (tiene anche un diario segreto colmo di romanticherie), ma per quanto ingenua sa esattamente quello che vuole, tanto che pur di ingelosire Red e convincerlo a sposarla non si fa problemi a provocare sessualmente un incredulo Bret, scompigliando all'improvviso tutti i piani di suo padre. Gli stessi uomini che speravano di controllarla finiscono così paradossalmente per diventare pedine in un intricato gioco di seduzioni e gelosie.
Red, interpretato da un Clint Eastwood alle prime armi (ci torneremo), è un personaggio altrettanto complesso, sempre sul filo dell'ambiguità. Si tratta, come giustamente sospetta il padre di Carrie, di uno sfaccendato, una sorta di vitellone del West, ma al tempo stesso è anche un giovane perdente che trattiene a stento la propria rabbia impotente e frustrata. A due terzi del racconto scopriamo che in realtà ha un'altra amante, da cui molto probabilmente non si staccherà mai, e le sue mire al ranch dei Christianson sembrano quindi più che verosimili, ma questa doppiezza del personaggio d'altra parte era già stata sottolineata fin dalla sua prima apparizione, non a caso davanti a uno specchio.
Quel che colpisce, nel finale, è che Carrie ammette però di aver sempre percepito i difetti di Red, ma fino a quel momento per amore era stata disposta ad accettarli. 
Carrie: Se c'era una cosa di cui ero sicura è che Red fosse un uomo, non un codardo. Ed ero disposta a perdonargli tutti gli altri difetti.
Bret: Beh, io stesso sono un uomo molto cauto, ma a me erano gli altri difetti che davano fastidio.
Carrie: Lei non è così cauto come le piace pensare.
Qui il telefilm si ricollega a uno dei motivi fondamentali che avevano attraversato un po' tutto il western "adulto" degli anni Cinquanta: l'uomo che, per mancanza di coraggio, perde la stima e il rispetto della donna che un tempo lo amava. Un motivo già esplorato in opere come Winchester '73 di Anthony Mann (1950) o I sette assassini di Budd Boetticher (1956), ma che qui, come dicevamo, viene smaliziatamente coniugato in chiave anche ironica, perché lo stesso Bret in realtà sa benissimo di non esser stato poi tanto coraggioso, visto che il suo in fondo era pur sempre un duello truccato. L'antieroe semi-umoristico, in altre parole, finisce ironicamente per diventare un modello alternativo di eroismo maschile.

Individuata le specificità della serie rispetto all'universo western, e in particolare dell'episodio rispetto alla serie, sarebbe ora il caso di provare ad applicare la nozione di autorialità: chi è il principale responsabile delle scelte artistiche dietro al racconto? Il postulato del regista-autore, com'è noto, è stato infatti puntualmente rimesso in discussione per quel che riguarda le forme della serialità televisiva. Spesso sono il creatore della serie, gli story editor, i produttori, gli interpreti e persino il direttore della fotografia a essere accreditati come le vere colonne portanti del programma, proprio perché sarebbe compito loro garantire la continuità fra un episodio e l'altro, creando quella riconoscibilità che è poi l'ossatura vera e propria del lavoro “in serie”. I registi, che spesso dirigono un numero limitato di episodi, sono invece di regola considerati poco più che dei “mercenari”, dei professionisti che si mettono a disposizione di un progetto estetico già ben delineato in precedenza. Ci sono, però, delle distinzioni da fare. Innanzitutto c'è serie e serie, e per esempio in quelle antologiche, composte da racconti singoli senza personaggi fissi, il regista ha chiaramente un ruolo assai determinante, proprio perché non è eccessivamente condizionato da regole fisse (vedi i vari Screen Directors Playhouse, Ai confini della realtà, Masters of Horror). Anche nelle serie propriamente dette, quelle con personaggi fissi in cui ciascun episodio resta però autoconclusivo, senza particolari linee orizzontali, il regista può comunque talvolta godere di una certa libertà, come proveremo a dimostrare proprio con il nostro Duel at Sundown.
Il regista di questo episodio è Arthur Lubin, un nome che ai più non dirà probabilmente granché. Ex attore, di formazione prevalentemente teatrale, Lubin inizia a dirigere piccole produzioni Monogram e Republic a metà anni Trenta, avventurandosi un po' in tutti i generi. Si tratta di lavori poco più che corretti, dove l'entusiasmo si trova spesso a dover sopperire all'inesperienza e alla mancanza di mezzi, ma nondimeno il regista viene presto promosso alla Universal, dove ottiene un primo grande successo con la coppia di Gianni e Pinotto, di cui diventa in breve il regista di fiducia. Specializzato ormai in film comici, inaugura quindi il ciclo di Francis il mulo parlante (1950-1955), da cui successivamente ricava anche una sorta di serie televisiva parallela, Mister Ed (1958-1966), che negli Stati Uniti genera presso i più giovani un vero e proprio culto. È chiaro, già soltanto scorrendo i titoli, che non possiamo quindi certo parlare di un autore ambizioso, quanto piuttosto di un semplice artigiano in grado di intercettare (e qualche volta anticipare) quelli che erano i gusti del pubblico più ingenuo e popolare. Benché Todd McCarthy e Charles Flynn nel loro Kings of the Bs (Dutton, 1975) gli dedichino ampio spazio, non mi sembra infatti che Lubin sia nemmeno lontanamente accostabile ad altre personalità di spicco trattate nel volume (Roger Corman, Edgar G. Ulmer, Val Lewton), proprio perché nella sua opera si fa spesso fatica a rintracciare un minimo comun denominatore che vada al di là di una certa sapienza artigianale. Persino l'analisi tematica dei suoi titoli migliori, tentata da Michael Grost, sembra piuttosto ricondurre Lubin nella sfera di una sostanziale mediocrità, così come un approccio di tipo stilometrico stenta a individuare, anche a livello formale, un'autentica coerenza espressiva. Basterebbe del resto confrontare un'opera pur piacevole come Deliziosamente pericolosa (1945) con il film di Douglas Sirk basato su un soggetto analogo, Desiderio di donna (1953), per rendersi conto della differenza che passa fra un semplice professionista e un artista autentico, capace di reinterpretare personalmente i materiali su cui lavora. Questo, sia chiaro, non significa però che Lubin sia necessariamente un cattivo regista, e men che mai uno sprovveduto. Significa, semplicemente, che i suoi film nel complesso non arrivano a esprimere una propria personale poetica, pur senza difettare in realtà di tante piccole virtù minori, che adesso andremo a vedere. Del resto, sarebbe stato fin troppo facile dimostrare che Alfred Hitchcock, quando dirige i suoi Alfred Hitchcock presenta, è a tutti gli effetti “autore” nel senso pieno del termine; mentre Lubin, regista “medio” alle prese con un lavoro “medio”, ci darà forse un'occasione migliore per valutare e apprezzare l'effettivo spazio di manovra di cui disponevano gli autori televisivi.
Riprendendo l'ultima immagine, partiamo allora proprio dalla presenza degli specchi, che in Duel at Sundown rielabora l'uso che Lubin ne aveva fatto in film come Deliziosamente pericolosa, Ho ritrovato la vita (1949) e Francis contro la camorra (1953): l'immagine riflessa come doppiezza, vita segreta, ma anche costruzione della propria identità pubblica a discapito di quella reale.
Al di là di questo piccolo marchio di fabbrica, è però soprattutto l'aspetto stilistico quello che va indagato più a fondo. Lubin, come dicevamo, non raggiunge mai un proprio linguaggio personale, riconoscibile a prescindere dal film, ma nonostante questo le sue scelte di messa in scena seguono un preciso gusto che va affinandosi nel corso degli anni. Nei film che dirige nell'immediato dopoguerra, in particolare, si ricollega a quella tendenza dell'epoca che puntava a ridurre al minimo il montaggio analitico (totale, campo, controcampo...), e lo fa appunto cercando di combinare un budget ristretto con una certa raffinatezza figurativa. L'esigenza primaria, con tutta probabilità, nasce in questo caso dalla frequente collaborazione con attori comici di derivazione teatrale, che molto spesso improvvisano e necessitano quindi di uno stile di ripresa fluido, che non ne spezzetti la performance al montaggio, ma a partire da questa esigenza Lubin riesce appunto a ottenere risultati visivi abbastanza gradevoli, che trapianta poi con un certo successo anche nel melodramma e nel noir. Pur senza arrivare a un uso sistematico del long take, i suoi film sviluppano quindi una tecnica in cui il carrello diventa fondamentale, legando in una sola inquadratura azioni e spazi diversi.
Da queste stesse necessità nasce inoltre una spiccata predilezione per le mezze figure e i piani americani, che sono le inquadrature più ricorrenti, proprio perché permettono di preservare il rapporto spaziale fra personaggio e ambiente. Anche quando ricorre all'alternanza di campo e controcampo, Lubin lo fa perciò mantenendosi relativamente a distanza dai suoi attori, girando in pratica due totali della stessa scena da angolazioni opposte e alternandoli poi al montaggio in modo da avere una copertura completa del dialogo, ma ottenendo così al tempo stesso delle immagini stratificate su più piani, quindi molto più vivaci e articolate.
Inoltre, sempre nel tentativo di ridurre al minimo il montaggio, Lubin evita per quanto possibile di aprire le scene con un totale fisso, ma molto spesso parte inquadrando un singolo dettaglio della scena, che attraverso un movimento di macchina all'indietro finisce però per collocarsi in un uno spazio più ampio. È una tecnica già all'epoca diffusa molto più di quanto si creda, rintracciabile per esempio con una certa frequenza nel cinema di Michael Curtiz, ma che Lubin sviluppa con una certa consapevolezza, arrivando addirittura a costruirci degli effetti comici abbastanza divertenti, basati proprio sulla sua deliberata ripetizione: vedi per esempio la sequenza di Francis contro la camorra in cui Donald O'Connor viene ripetutamente sottoposto a visite psichiatriche, con i test attitudinali che diventano ogni volta più complicati.
Questo linguaggio, che senza essere rivoluzionario sviluppa insomma un suo orientamento ben preciso, trova terreno fertile nella produzione cinematografica di serie B, ma come vedremo viene trasportato almeno in parte anche nell'attività televisiva di Lubin. Anche qui, però, ci sono da fare alcune distinzioni, perché apparentemente la qualità della messa in scena varia da lavoro a lavoro: se si prende in analisi un episodio girato da Lubin per Bonanza (Badge Without Honor, 1960), si troverà infatti una regia completamente anonima, che si limita davvero a dirigere il traffico, senza nessuna invenzione di alcun tipo; se invece guardiamo al lavoro su Maverick, troviamo al contrario un regista a suo agio con lo spirito della serie, a cui riesce ad aggiungere più di qualche tocco personale. Per rendersene conto, basta confrontare la frequenza della varie inquadrature, prendendo come termine di paragone il primo episodio della serie, War of the Silver Kings (1957): laddove il regista del pilot, Budd Boetticher, aveva dato largo spazio ai primi piani (PP), Lubin adotta invece uno stile più prossimo alla propria esperienza cinematografica, prediligendo inquadrature più ampie come i piani americani (PA) e i campi medi (CM).
Nonostante questo, però, Duel at Sundown fa comunque ampio ricorso a mezzi primi piani e alla dinamica campo-controcampo, forse proprio perché il formato televisivo incoraggia il regista ad avvicinarsi ai personaggi, che sul piccolo schermo per essere chiaramente riconoscibili necessitano di inquadrature abbastanza ravvicinate. La durata media delle inquadrature (7,5 secondi) di fatto non si discosta quindi molto da quella degli altri episodi, che hanno valori molto simili.
L'altro aspetto caratteristico di Lubin, che in chiave minore ritroviamo anche in Maverick, è però l'uso del carrello. Addirittura, con un certo gusto autoriflessivo, il regista piazza il vecchio Jed Christianson su una sedia a rotelle, così da potersi concedere dei movimenti di macchina “invisibili” ogni volta che lo accompagna in giro per casa.
Da notare inoltre che anche qui Lubin non rinuncia ad aprire la scena partendo da un dettaglio e allargando poi il campo con un movimento all'indietro, e la scelta acquista un particolare valore nella scena in cui scopriamo l'amante di Red, proprio perché il carrello all'indietro ci coglie di sorpresa, mostrandoci un ambiente che non ci aspetteremmo.
Proprio quest'ultima scena, fra l'altro, ci costringe ad aggiustare il tiro su quanto abbiamo appena notato rispetto all'utilizzo di un montaggio standardizzato. Se anche l'episodio adotta infatti senza troppi guizzi la pratica del campo e controcampo, ci sono perlomeno due scene, girate con piani-sequenza quasi inavvertibili, che scelgono una via radicalmente diversa e, neanche a farlo apposta, sono le due scene in cui per la prima volta Red ci viene rispettivamente mostrato prima con Carrie (1' 10”) e poi con l'altra ragazza (1' 45”). Una specie di “rima” a distanza fra le due donne, che attraverso lo stile aggiunge appunto un'ulteriore nota ironica al racconto.

Infine, visto che si tratta forse dell'apporto più cospicuo, va anche considerato il ruolo di Lubin per quanto riguarda il casting dell'episodio. Non c'è dubbio, infatti, che Eastwood sia stato una sua scelta, visto che l'attore fra il 1955 e il 1962 appare in ben sei dei suoi film e telefilm. Scoperto quando ancora lavorava in un'officina, Clint Eastwood è anzi in questo senso un'autentica invenzione di Lubin, che fu il primo regista a credere nelle sue possibilità, tanto da dirigerne personalmente il primissimo provino e insistere poi perché la Universal lo mettesse sotto contratto. Non che il regista si facesse all'inizio molte illusioni sulle capacità attoriali di questo ragazzone un po' timido, ma in qualche modo ne aveva da subito intuito il potenziale grezzo: “Non era certo un attore, ma aveva una grande personalità” (Kings of the Bs). Duel at Sundown in questo senso costituisce quindi anche una testimonianza di grande rilievo sul percorso di Eastwood, proprio perché si colloca in corrispondenza di una svolta decisiva. Le riprese hanno infatti luogo nell'autunno del 1958, quando l'attore ha già interpretato i primi episodi di Rawhide, telefilm che gli darà presto la notorietà ma che per il momento è rimasto “congelato” per problemi finanziari, e Lubin si trova per l'ultima volta a dirigere un attore ancora un po' legnoso ma che di lì a poco avrebbe raggiunto una prima maturità. Quel che è più notevole, comunque, è che Lubin conoscendolo bene si rende perfettamente conto di quelli che sono i limiti recitativi di Eastwood, e insieme scelgono allora di costruire il personaggio cercando di sfruttarli a proprio vantaggio. Red, più che un vero duro, diventa così uno spaccone, qualcuno che recita, spesso maldestramente, la parte del gradasso. La sua rabbia, di conseguenza, nasce soprattutto dall'insicurezza, che a malapena riesce a camuffare davanti agli amici. C'è persino della tenerezza sotterranea in certi momenti, come quando impacciatamente si affanna a minacciare Bret, che per tutta risposta invece lo degna a malapena di uno sguardo.
Con una tecnica tipica di un attore alle prime armi, Eastwood cerca qui di convogliare il senso della scena soprattutto attraverso un particolare gesto caratteristico, scegliendo in questo caso la mano sinistra che giocherella minacciosamente (o nervosamente?) con uno stecchino. Quasi a mortificare questa insicurezza latente, Lubin sceglie allora di far recitare a Eastwood le scene successive del telefilm con la mano fasciata, rendendo così ancor più ridicolo il gesticolare di questo bulletto di paese. Il ritratto che ne esce, pur con tutti i suoi limiti, è appunto efficace proprio perché lavora su due livelli, andando a ribadire continuamente l'ambiguità del personaggio. Eastwood per la prima volta riesce così a costruirsi un personaggio coerente e allo stesso tempo impara a decostruirlo, prendendone criticamente le distanze. Una lezione che gli tornerà utile quando, diventato un autentico divo, non si stancherà mai di smontare e rimontare il proprio mito. Una lezione per cui, forse, dobbiamo essere tutti un po' grati a Maverick.