sabato 24 novembre 2012

Memorabilia (4)




Più che un'attrice, Mae West è stata un'icona, forse persino un'eroina. Un'attrice comica che, più o meno in solitudine, ha dato vita a una propria personalissima rivoluzione sessuale, imponendo nell'immaginario americano un nuovo modo di pensare e rappresentare l'erotismo. Un'autrice che, senza imbarazzi di sorta, ha praticamente rovesciato tutte le norme di genere, imponendo un inedito sguardo femminile che ridiscuteva di volta in volta le regole del gioco fra i sessi. Ma anche un modello estetico che, partito controcorrente rispetto ai gusti dell'epoca, è riuscito addirittura a imporsi come proverbiale, scavalcando qualsiasi moda e tendenza. Pur concepiti e girati durante gli anni della Depressione, i suoi film non a caso sono quasi sempre ambientati in un'immaginaria belle époque di fine secolo, o al limite nell'ultimo squarcio di quei ruggenti anni Venti che già l'avevano vista trionfare a teatro, rivelata da quello storico spettacolo-scandalo che fu Sex (1926). A differenza delle flapper portate sullo schermo da una Joan Crawford, i suoi sono infatti personaggi che si riallacciano direttamente alla tradizione scollacciata del vaudeville, ma con un'intelligenza e una spregiudicatezza tutte moderne. Il suo gusto per le battute pungenti, capaci di ammaliare e all'occorrenza demolire qualsiasi avversario maschile, ne fanno l'attrice comica più citata di sempre, una sorta di contraltare femminile a Groucho Marx, ma anche il modello confessato o inconfessato per tutto quel cinema e tutta quella televisione che, a distanza di decenni, si sono confrontati con i feticci della sessualità moderna: dalle maggiorate di Frank Tashlin e Russ Meyer alle protagoniste di Sex and the City, dalla Madeline Kahn di Mel Brooks fino alle più sboccate delle stand-up comedian. L'immagine definitiva, quella che meglio riassume una simile verve dissacrante (ma anche autoironica), resta allora quella proposta da Leo McCarey e dal costumista Travis Banton, che nel loro Belle of the Nineties la trasformano addirittura in un autentico monumento erotico, una piccante parodia della Statua della Libertà entrata giustamente nell'immaginario collettivo come “the Statue of Libido”.
Letteralmente adorata da Salvador Dalì e Fellini, ma omaggiata anche da Truman Capote, Tennessee Williams e Gore Vidal, quella di Mae West è insomma una figura che fa parte a pieno titolo della mitologia del XX secolo, non meno delle bottigliette di Coca Cola o delle bandiere con falce e martello. Destino tanto più curioso se pensiamo che, in fondo, si tratta se non di un'antidiva sicuramente di una diva sui generis, di certo non bella secondo i canoni tradizionali, e arrivata peraltro sul grande schermo quando i suoi trent'anni erano ormai un lontano ricordo. Ma proprio da qui, del resto, nasce parte del fascino proto-femminista del personaggio, quello di una donna emancipata che con la propria personalità e la propria intelligenza si è costruita da sé il proprio mito, piegando alle proprie esigenze persino le serratissime regole dello studio-system. Ci saranno state infatti, anche negli stessi anni, attrici più belle, più versatili e in definitiva più “leggendarie”, ma nessun'altra ha avuto la medesima indipendenza e il medesimo potere all'interno dell'industria hollywoodiana. Capace di scrivere o riscrivere da sé i propri copioni, ma anche di imporre le proprie scelte a produttori e registi, Mae West è infatti in un certo senso anche un esempio più o meno unico di autorialismo ante litteram, tanto che alcuni suoi film nei titoli riportano semplicemente la dicitura “by Mae West”.
Persino le attenzioni poco lusinghiere della censura, in un certo senso, non hanno fatto altro che alimentare il fascino quasi morboso intorno alla sua personalità, e questo curiosamente anche quando poi le circostanze rendevano pressoché invisibili i suoi lavori. Anzi, è proprio in quest'ottica che diventa estremamente interessante studiare la fortuna italiana di Mae West, proprio perché di questa attrice-autrice-personaggio, attiva sul palcoscenico, al cinema, alla radio e sulla carta stampata, in Italia è sempre arrivata soltanto una timida eco, e anche le sue battute più pungenti, messe “fra virgolette”, hanno spesso assunto un carattere tutto sommato innocuo. Analizzando quotidiani e settimanali degli anni Trenta e Quaranta, da un lato ci si rende conto infatti dell'enorme popolarità che Mae West doveva aver raggiunto anche nel nostro paese, ma al tempo stesso si capisce anche come per il pubblico italiano l'attrice fosse rimasta in buona sostanza una semplice figurina di carta, un volto che era più facile incontrare su una rivista che non sul grande schermo. L'unico suo film ad aver trovato una regolare distribuzione cinematografica, nel 1934, era stato She Done Him Wrong (ribattezzato Lady Lou), mentre gli altri nove titoli interpretati fra il 1932 e il 1943 non avrebbero mai passato il vaglio della censura o del mercato, nemmeno quando avevano avuto alle spalle un forte investimento pubblicitario, come per il caso di I'm No Angel o Belle of the Nineties (quest'ultimo, col titolo La donna fatale, sarebbe poi apparso se non altro sotto forma di romanzo a puntate su “Cinema Illustrazione”, nn. 11-14, 13 marzo-3 aprile 1935). Eppure, non c'è dubbio, il pubblico stravedeva per lei, tanto che ad esempio la rivista “Cinema” (n. 27, 10 agosto 1937), per placare l'insistente curiosità dei suoi lettori, arrivò a un certo punto a pubblicare persino un articolo con le 12 domande più frequenti rivolte alla diva, tutte accompagnate naturalmente dalle consuete, sagacissime risposte.
Una forma di strabismo mediatico forse nemmeno troppo inconsueta (quante “attrici” sono diventate popolari quasi senza far film, puntando tutto sull'apparato promozionale?), ma che in questo caso specifico assunse davvero connotati paradossali: i paratesti (le copertine, le interviste, le novellizzazioni) presero in pratica il posto dei testi veri e propri (i film), e il mito dell'attrice si nutrì quasi esclusivamente di questi surrogati. È un fenomeno che, così su due piedi, non è facile spiegare, se non forse come una sorta di “provincialismo di massa”, per cui un idolo del pubblico americano veniva automaticamente recepito e acclamato anche dal nostro pubblico, poco importa se in maniera del tutto indiretta. O forse la macchina promozionale delle major aveva davvero messo in piedi un meccanismo talmente perfetto per cui, al limite, era ormai tranquillamente possibile vendere anche una diva che non c'era. Fatto sta che, spulciando le vecchie pubblicazioni dell'epoca, c'è davvero da restare a bocca aperta per la perizia con cui, settimana dopo settimana, Mae West si infiltrò di soppiatto nei sogni proibiti di mezza Italia. Le prime avvisaglie si ebbero già fin dai primi mesi del 1933, quando il clamore sollevato dal suo primo film da protagonista, She Done Him Wrong, varcò l'oceano e le fece guadagnare copertine e trafiletti vari. Una strategia pubblicitaria in cui rientra anche un articolo di colore apparso il 15 marzo sul popolarissimo settimanale “Cinema Illustrazione” e firmato da Louis Sassoon, pseudonimo riconducibile nientemeno che a Cesare Zavattini, che in quegli anni in effetti sbarcava il lunario inventando di sana pianta delle fantomatiche corrispondenze da Hollywood:

Il più grande successo del giorno a Hollywood è un film: She done him Wrong (Essa gli fece torto), con un'attrice bravissima, ma completamente sconosciuta agli spettatori italiani, e pochissimo nota anche nel resto di Europa. Ma questa volta credo che Mae West passerà, almeno come immagine, l'Atlantico.
Perché Mae West... Ma procediamo con ordine: il successo di questo film al “Paramount Theater” di Los Angeles, può forse segnare l'inizio di una nuova era: ecco perché ho creduto bene di segnalarlo. Il film si svolge al principio del nostro secolo, quando la moda era tutta ottocentesca e le dame portavano delle toelette che ci sono sembrate comiche fino a quando l'ultima moda non le ha fatte di nuovo sembrare belle. [...] Mae West interpreta mirabilmente il suo personaggio sia dal lato fisico che spirituale: non recita, vive. E fisicamente ha saputo essere con grazia, con gioia, oserei dire, una giovane donna di trentatré anni or sono. Voglio dire, in altre parole, che non ha affatto vergogna di sembrare ben tornita anziché giovarsi di essere ben... piallata. [...] Si sa che Mae West mangia ciò che vuole, perché ha un magnifico appetito, non ha paura di ingrassare ed ha una robustezza fisica che le consente ogni sport, ogni fatica di studio e di mondanità. E ad Hollywood si è già creata una frase che dice tutto: “Avere un fisico alla West!”.
[...] Cinque, quattro, anche tre anni or sono, pensare che ad Hollywood la moda del tipo femminile ridotto pelle e ossa sarebbe cambiata in favore di un genere un poco più... maneggevole, era una speranza assurda. Tutte le case cinematografiche possedevano uno stock di attrici perfettamente denutrite e non avrebbero permesso che la loro merce fosse così facilmente svalutata. [...] Chi ha visto Grand Hotel avrà notato che la Garbo, poverina, è ridotta ad una canna di bambù, che la Crawford ha perduto i suoi bellissimi lombi ed ha due fosse scavate sotto gli zigomi. Chi vede le altre si accorge che, disgraziate, hanno fame e che, ad abbracciarle, l'attore che deve fingere di amarle, sente certamente scricchiolare la loro cassa toracica.
Benvenuto dunque il “tipo West”! A guardarlo bene ci si accorge che l'arcimodello, il tipo sempiterno, è l'immagine di colei che nacque dalla schiuma del mare e che gli antichi ci hanno tramandato in statue di divina bellezza. Ma forse per gli scemi, e sono purtroppo la maggioranza, anche Venere Anadiomene sarà poco... fotogenica.
Lo stesso discorso incentrato su questo nuovo modello di femminilità, subito ribattezzato “donna anticrisi”, sarà ripreso più o meno invariato anche da Marco Ramperti, che sul numero di “Cinema Illustrazione” del 3 gennaio 1934 presenta al pubblico She Done Him Wrong, ormai di imminente uscita anche in Italia, ma in pratica lo fa senza parlare affatto del film, proponendo piuttosto una sorta di “biografia immaginaria” della West, incontrata (?) in California quindici mesi prima, quando non era che un'aspirante attrice come tante altre:

Il “Brown Derby”, intanto, andava affollandosi della sua illustre clientela del mercoledì [...] Ad uno dei tavoli, servita con più abbondanza ma con meno ossequio, stava una florida dama sui venticinque [sic], che per la sua mole matronale non era certo da considerarsi un'attrice: bensì una benestante forestiera, di passaggio a Hollywood; o forse una scrittrice di soggetti […]. E a costei io non avrei badato, fra le tante illustrazioni che ci attorniavano, s'ella non si fosse distinta, unica eccellenza sua, con l'appetito: poi che, avendo ordinato, in luogo del puro tè all'arancio o all'ananasso cui si attenevano le stars in lor regime strettissimo, una fila di fumanti e sudanti hot-dog's, se li andava ora distruggendo, uno dopo l'altro, con una placida e ferma divorazione che pareva quasi, per tutte le altre, un insulto e una sfida. [...] Ma l'atticciata e tranquilla dama non se ne dava per inteso; e come il resto della clientela non faceva che delibare, assaggiare, smozzicare, sgranocchiare in punta di labbra e d'incisivi, ella invece, a quattro palmenti e senza un'ombra di riguardo, faceva questa cosa naturale e straordinaria, necessaria e scandalosa: mangiava. E naturalmente io non osai, benché incuriosito, domandarne il nome [...]. La riconobbi, venuto in Italia, da una vignetta di “Cinema Illustrazione”: l'ignota trangugiatrice era l'ormai celebre Mae West, la quale aveva avuto tempo, in venti giorni soltanto, di uscire dall'ombra d'un ristorante per entrare nella luce della gloria.
L'attenzione per questa attrice-personaggio, non ancora ammirata sullo schermo ma evidentemente già idolatrata dal pubblico, raggiunge però il suo culmine in un trafiletto intitolato addirittura Allarme (“Cinema Illustrazione”, 27 dicembre 1933), in cui le solite voci maligne create ad hoc arrivano d'un tratto a ipotizzarne un preoccupante dimagrimento:


Una notizia sensazionale ha circolato giorni or sono a Hollywood: Mae West dimagrava. Un vero avvenimento. E nei locali pubblici e negli studi si arrivava a precisare quanti grammi di carne avevano abbandonato il bel corpo della prosperosa attrice. In altri tempi una stella avrebbe sacrificato migliaia di dollari per accreditare sempre più una voce di quel genere; ma adesso Mae West è andata sulle furie: “Calunnie delle colleghe!” ha esclamato. E ha convocato subito un bel gruppo di giornalisti per informarli che il suo bendiddio era sempre a posto: e per poco non si è esposta a una perizia. Poi è andata a chiedere consolazione a Mary Pickford che è diventata la sua migliore amica. Tanto amica che Mary ha scritto una scena per il nuovo film di Mae: No, non è peccato. [...] Dal momento, poi, che ci troviamo fra le mani – che grandi mani! – Mae West, cogliamo l'ultimo pettegolezzo che è stato creato intorno alla nota avversione esistente fra lei e Marlene Dietrich. “Ah, sì? La signora Dietrich ha detto che ella ignorava le mie toelette? Ma se ho sempre sentito dire che porta il mio busto per mostrare curve alla Mae West!”
Si tratta di una strategia pubblicitaria che oggi può far senz'altro sorridere, ma che all'epoca rientrava in una precisa politica editoriale voluta dalle major: al divismo un po' troppo “divino”, caratteristico ancora di certe femme fatale del muto, si andava infatti sostituendo una dimensione molto più terrena, per cui anche attrici irraggiungibili come Marlene Dietrich o Greta Garbo erano spesso mostrate nella loro quotidianità, sottolineandone anzi tutti quegli aspetti mondani che le lettrici potevano facilmente imitare nella vita di tutti i giorni. Particolare attenzione, quindi, veniva immancabilmente rivolta alle visite dalla modista, alle sedute dal parrucchiere, ma anche all'igiene personale, allo sport e, appunto, alle diete più o meno ortodosse seguite dalle dive. Un processo promozionale e pedagogico insieme, che Raffaele De Berti ha giustamente definito come “ricontestualizzazione del mondo di Hollywood nella cultura italiana”, e che ha avuto il proprio strumento principe proprio nella stampa popolare, che in quegli anni attraverso la formula del rotocalco iniziava a raggiungere un pubblico sempre più vasto. I film veri e propri, in tutto questo, costituivano quindi soltanto una delle molteplici modalità con cui gli spettatori si rapportavano ai loro beniamini del grande schermo, tanto che la popolarità di un attore poteva in certa misura prescindere dai suoi successi artistici. La stessa Mae West, come abbiamo visto, diventa così un'autentica diva prima ancora di comparire sul grande schermo, e non a caso la stessa recensione (positiva) di Lady Lou occuperà su “Cinema Illustrazione” uno spazio più o meno irrilevante, ridotta in pratica a poche righe in terza di copertina (21 febbraio 1934). Niente a che vedere con il paginone riservatole due settimane più tardi, in cui “intervistata” da tale “Co. di S. Siro” la vamp si muta in consulente sentimentale e ci confida i suoi segreti Per vincere in amore (7 marzo 1934):


Come dominatrice di uomini, Mae è realmente un'esperta, una tecnica di indiscutibile competenza, che all'abilità dell'esercizio pratico accoppia anche una non trascurabile preparazione teorica. È perciò che abbiamo voluto chiedere alla diva di concederci qualche briciolina della sua scienza della seduzione, e Mae s'è degnata di esporci un prezioso decalogo ad uso delle ragazze da marito, garantendocelo come l'unico di sicuro effetto.
Il primo consiglio che la formosa diva rivolge alle ragazze è questo: “Renditi desiderabile valorizzando il sex appeal”. A scanso di equivoci, ella spiega subito però che con questo non intende dire che le ragazze desiderose di essere amate debbano assumere atteggiamenti sfrontati e debbano trascendere a esibizioni o atti men che morali. No! Il sex appeal – precisa la diva – è fatto di civetterie sottili ma sempre garbate, di piccole scaltrezze femminili che devono sempre evitare la volgarità. Una fanciulla – continua Mae – pur non abdicando alla sua dignità di donna, può eccitare i sensi ben più di una femmina aperta e rotta a ogni arte della seduzione.
Il secondo consiglio è questo: “Conserva la tua femminilità sia nell'apparenza che nei sentimenti”. Ed è, come ognuno capisce, una raccomandazione più che saggia. Mae West, per esempio, condanna l'uso dei calzoni – nella donne ben inteso – con una forza e un ardore da crociato. “Adoro i calzoni – ha affermato – ma solo quando sono infilati nelle gambe degli uomini. Una donna che si compiace di farsi vedere in giro in indumenti maschili, o che fa esibizioni sulle spiagge sfoggiando pigiami da uomo, è per me altrettanto ripugnante di un uomo che indossasse le sottane o scoprisse la caviglia nel camminare”. Brava Mae! [...]
Terzo consiglio: “Non cingerti di una corona di virtù troppo rigida, quando un uomo che ti interessa desidera conquistarti”. [...] “Una ragazza – ha detto Mae – che resiste troppo, che arrossisce a ogni richiesta di un bacio, che trasalisce se il fidanzato le sfiora una mano, finisce per stancare il probabile futuro marito e molto spesso si vede giocata da un'amica più intraprendente e meno disposta ad arrossire”.
Consiglio numero quattro: “Studia le particolari attitudini del tuo uomo e lavora su quelle”. Qui Mae presuppone evidentemente che tutte le ragazze dispongano della sua intelligenza e del suo intuito. [...]
Andiamo dunque avanti col quinto suggerimento: “Lascia intendere al tuo ammiratore che egli ha dei concorrenti, ma non insistere troppo”. [...] Altro autentico capolavoro di sottigliezza psicologica! “Però – ha aggiunto subito Mae, che la sa lunga – non bisogna esagerare. Esagerando, parlando sempre degli altri adoratori veri o immaginari, c'è il pericolo che l'uomo si annoi e decida filosoficamente di consegnare il suo cuore a qualche ragazza che sia meno occupata!”
Sesto consiglio: “Non ti concedere facilmente: l'orgoglio dell'uomo non può essere soddisfatto che dalla conquista con la lotta”. [...] “Se – ha aggiunto Mae pittorescamente – i leoni si potessero tenere al guinzaglio come i cani, nessuno più andrebbe fiero di possedere una pelle di leone, e i leoni verrebbero probabilmente presi a calci nel posteriore, come oggi i cani”. Capito?...
La settima raccomandazione suona precisamente così: “Stimola l'immaginazione dell'uomo”. [...] Ci perdoni la bella Mae con tutti i suoi meriti [ma] è una raccomandazione superflua. Superflua sì, poiché è pacifico che le bugie le sanno raccontare anche le fanciulle più stupide e meno intraprendenti, senza bisogno che nessuno si scomodi a raccomandarne l'utilità!
Consiglio N. otto: “Ricorda che il cervello potrà servirti più della bellezza”. Qui ci siamo: consiglio veramente saggio e intelligente. […] “Vi sono molte ragazze – ha commentato Mae – che credono di impressionare l'uomo bistrandosi la faccia, e posando a “fatali”, complice una certa naturale avvenenza. Si disingannino. È ben vero che l'uomo non cerca più l'ochetta sclerotica che sappia suonare La preghiera della vergine e fare il ricamo su un paio di pantofole; ma è altrettanto vero che le “statue di carne” sono dall'uomo desiderate, non amate, e neppure tenute in considerazione per un eventuale matrimonio”. Avventure, in altre parole, non intenzioni serie! [...]
Nono consiglio: “Sii sempre differente”. Una parola!... [...]
Decimo e ultimo: “Studia la vita e il contegno delle famose donne fatali della storia”. Veramente la parola usata da Mae è charmers, voce mezzo francese e mezzo inglese che si dovrebbe tradurre in italiano con una parola più cruda. Usiamo l'eufemismo: ché il vero significato si può egualmente capire. Dunque, leggere la storia delle donne fatali famose, e – questo Mae non l'ha detto ma l'ha lasciato sott'intendere – imitare le medesime. Ahi, ahi, qui il consiglio ci sembra veramente pericoloso ed eccessivo. Lo riferiamo soltanto per non defraudare i lettori di questa decima norma del decalogo. Non diciamo che per conquistare gli uomini la lettura della Vita dei Santi Padri sia la più indicata, ma perché trascendere addirittura alle storie delle “donne fatali” storiche?... Mae West, come vedete, è una donna ricca di esperienza oltre che di sex appeal.
Il testo, probabilmente tradotto e adattato da uno dei tanti articoli che uscivano all'epoca su riviste americane come “Photoplay” e “Movie Classic”, diventa a suo modo un autentico capolavoro di cerchiobottismo acrobatico proprio per lo sforzo (persino esibito!) di ricontestualizzare il personaggio di Mae West in un ambito culturale molto meno progressista, in cui le sue allusioni sessuali non possono che finire immancabilmente “virgolettate”. Il personaggio dell'attrice, eccessivo per vocazione, viene in pratica addomesticato attraverso le continue intromissioni del cronista, che diventa in questo senso il garante di quel comune senso del pudore a cui, a fine articolo, è comunque necessario ricondurre la fantasie eccitate di lettori e lettrici. Qualcosa di simile accadrà anche un po' in tutte le altre interviste che, con una certa puntualità, continueranno ad apparire almeno fino al 1937, spesso sotto titoli più o meno improbabili come Mae West sotto chiave (“Cinema Illustrazione”, 22 maggio 1935), Pretendono d'avermi sposata (30 ottobre 1935), Mae West parla dei gentiluomini (9 settembre 1936), La vera Mae West in 13 risposte (10 marzo 1937) o, addirittura, Che cosa dice la cameriera di Mae West (13 febbraio 1935). Nel 1938 la legge Alfieri, nel tentativo di ridurre la presenza del cinema americano nelle nostre sale, obbligherà però anche i settimanali ad abbandonare i divi d'oltreoceano per concentrarsi piuttosto su un pugno di attori nostrani. Mae West, che come abbiamo visto doveva la propria familiarità col pubblico soprattutto alla carta stampata, ne sarà forse penalizzata più di altri, tanto che per esempio nessuno dei suoi film verrà recuperato nemmeno nell'immediato dopoguerra, quando pure sugli schermi appariranno molti dei film bloccati a suo tempo dalla censura fascista. Già dal 1937, peraltro, il regime aveva cominciato a orientare una campagna di denigrazione a mezzo stampa che puntava a ridimensionare la popolarità degli interpreti hollywoodiani, di cui venivano innanzitutto messi in piazza i guadagni oltremodo “gonfiati”. Anche Mae West cadde naturalmente vittima di questa nuova politica editoriale, tanto più che il suo personaggio era senz'altro uno di quelli più facilmente attaccabili. Molto curioso, per esempio, è l'articolo di Stanley Walker intitolato Mae West scandalo d'America, tradotto per il numero 38 di “Cinema” (25 gennaio 1938), che di per sé non avrebbe nulla di particolarmente diffamatorio, ma a cui fu aggiunta una velenosissima noticina introduttiva:

Gli attori hollywoodiani hanno provocato un'idolatria del pubblico europeo per certi atteggiamenti tipicamente americani. Mae West, figlia di un'attrice francese, potrebbe essere considerata una specie di vendetta per quella invasione di idoli stranieri. Perché Mae West rappresenta un temperamento tipicamente europeo, ormai superato da noi, ma che suscita nel pubblico americano certe sensazioni del nostro “fin de siècle”. Infatti, la donna di Baudelaire e di Felicien Rops doveva sembrare qualche cosa di assai strano e attraente agli americani, per cui la donna non è rimasta altro che un animaletto, pretensioso magari, ma innocuo, ed estremamente semplice.
Riflessioni piuttosto sorprendenti, specie se si pensa che fino a pochi mesi prima, proprio sulle pagine di “Cinema” (n. 27, 10 agosto 1937), si tessevano ancora le lodi dell'indimenticabile Lady Lou, arrivando a concludere che “l'intelligenza e la vitalità dell'attrice fanno presa su chiunque”. E comunque l'improvviso voltafaccia non rende nemmeno conto del tentativo, per la verità piuttosto sfortunato, di sfornare proprio in quegli anni una “Mae West italiana”, cioè un'attrice autarchica che non facesse rimpianger troppo la scomparsa dell'inimitabile “donna anticrisi”. L'aspirante sostituta, la romagnola Gemma Bolognesi, ebbe però dal cinema soddisfazioni assai modeste, e nonostante la decennale carriera teatrale non riuscì mai a imporsi davvero sul grande schermo. Il suo ruolo più memorabile, a conti fatti, resta quello “circense” in Darò un milione (1935) di Mario Camerini, nato guarda caso proprio da un soggetto di Cesare Zavattini/Louis Sassoon.

Gemma Bolognesi e Vittorio De Sica in Darò un milione (1935)

Quel che più colpisce, come dicevamo, è però il destino infelice che attende il mito di Mae West anche dopo la caduta del fascismo. Mentre sul finire degli anni Quaranta, per esempio, i fratelli Marx conoscono in Italia una breve stagione di rinnovata popolarità, nessuno dei titoli dell'attrice viene recuperato, nemmeno il pur recente The Heat's On (1943). Continuano nonostante tutto a uscire un pugno di articoli -più o meno morbosi- sul declino e i nuovi progetti dell'attrice, ma anche stavolta il pubblico non ha modo di giudicare con i propri occhi. Per assurdo, l'unico vero successo sembra arridere ancora una volta alla Mae West di carta, visto che a partire dal 1952 l'editore Del Duca raccoglie in volume le novellizzazioni dei suoi testi teatrali più famosi (Diamond Lil, The Constant Sinner) e infine nel 1961, a 27 anni di distanza da Lady Lou, Borghese pubblica la sua autobiografia, L'amante degli anni trenta, a cui anche la stampa periodica dedica ampio risalto. Ma già il titolo italiano di quest'ultimo volume, che sostituisce l'originale Goodness Had Nothing to Do With It, non fa altro che collocare la sua protagonista in un orizzonte temporale ormai tanto leggendario quanto remoto. L'ultimo atto, paradossale come i precedenti, di un mito tutto artificiale: l'autocanonizzazione di una diva invisibile.
In fin dei conti, si diceva un tempo, quello di Mae West era un fenomeno tipicamente americano, che riguardava poco noi europei; finché, tutto d'un tratto, non si è riconosciuto invece che la sua era stata un'opera anticipatrice, d'accordo, ma che ormai scontava uno spirito fin troppo naif, non più al passo con i tempi, recuperabile semmai soltanto nella sfera del cosiddetto camp. Insomma, la vera Mae West in Italia non è mai arrivata. La sua arte ha fatto capolino solo in qualche timida retrospettiva degli anni Settanta e Ottanta, quando in effetti i suoi lavori somigliavano ormai più che altro a polverosi oggetti di studio, ammantati casomai di una certa nostalgia per le buone cose di cattivo gusto dei bei tempi andati. Per questo, forse, la definizione più calzante resta ancora oggi quella che ne ha dato Massimo Mida in una sua rubrica su “Cinema” (n. 21, 30 agosto 1949): un personaggio del tempo perduto.

Erede ultima delle eroine del “can can” parigino (ventagli, piume, calze nere sono elementi a lei familiari e fanno fede sull'origine del suo gusto tipico da palcoscenico di music hall), Mae West ha saputo aggiungere a quel modello famoso uno spirito ancor più brillante e una misura di penetratività tipicamente yankee, valendosi d'altra parte di un sex-appeal conturbante e pubblicitario. Del resto, la violenza del suo incedere sul palcoscenico (suo elemento naturale) o sullo schermo (elemento al quale seppe adattarsi con notevole maestria) Mae West sembra portarla nel suo stesso cognome. Non vuole esso infatti riproporci le immagini di un West, popolato da sceriffi e da banditi mascherati e da lei stessa, Mae West, maliarda fine secolo, sbarcata forse dalla vecchia Chicago dietro il bancone di uno spaccio a distribuire gotti di birra e provocanti sorrisi?
Nata a Brooklyn (New York, U.S.A.) il 17 agosto 1893, prese parte a circa dieci film, ma il suo mestiere vero era il varietà, che ella aveva praticato dall'età di cinque anni. I suoi film, come è noto, furono respinti e mutilati dalle censure di tutto il mondo, compresa quella italiana, la quale le applicò il veto in non pochi film da lei interpretati, mentre lavorò abbondantemente di forbici in She Done Him Wrong (Lady Lou, 1933) e in I'm No Angel (1933). Così è nato il mito di una Mae West creatura micidiale per i collegiali, creatura pericolosa, come un fucile spianato, per la morale pubblica. [...] Walt Disney ci ha consegnato un famoso e ironico ritratto di Mae West in Chi ha ucciso Cock Robin? [1935], dove la “diva” è rappresentata come una passera grassa e avvenente, con tutto il corredo di movenze, di mute implorazioni degli occhi e di promesse di “non più peccare” rivolte ai severi e puritani giudici. Da quel momento, e il merito va tutto alla “diva”, il personaggio di Mae West fu consegnato alla storia del costume americano.
La mia Mae
(Dafne Imbimbo, 2012)

mercoledì 24 ottobre 2012

McCareyana (1)


La storia di un uomo che porse l'altra guancia...
e si prese un pugno sul naso...



La mia passione per Leo McCarey nasce nel 2009, in occasione di un omaggio organizzato per I Mille Occhi. Una rassegna, composta da sette titoli, che partiva da un rapido sguardo al periodo muto (Big Business, 1929) per ripercorrere poi alcune delle commedie più originali e sorprendenti (Le campane di Santa Maria, 1945, Il buon samaritano, 1948) e chiudere con un assaggio delle ultime opere, solitamente liquidate come “anticomuniste” (Storia cinese, 1962). Pur conoscendo già qualcuno di questi film, fu proprio rivedendoli su grande schermo che rimasi definitivamente conquistato da questo regista, che a ogni nuovo lavoro mi sembrava tornare sugli stessi temi con un'energia e una ricchezza sempre nuove. In festival del genere, in cui praticamente si trascorrono intere giornate chiusi in sala, non è sempre facile trovare il tempo necessario per metabolizzare e apprezzare fino in fondo il singolo film, ma in compenso proprio questa full immersion nell'universo di un autore permette alle volte di cogliere quella coerenza sotterranea che può invece sfuggire a una visione più casuale e discontinua. Si tratta, beninteso, di una prospettiva che in qualche caso può anche esser falsante, ma che a ogni modo fornisce una prima immagine complessiva, di cui è poi possibile avvalersi in un lavoro di analisi più rilassato e approfondito.
McCareyano di fresca data, con gli occhi ancora pieni di tanto splendore, confesso di esser quindi rimasto piuttosto sorpreso nell'apprendere che una parte della critica anglosassone fatica invece ancora oggi a riconoscere al regista lo statuto di “Autore” con la maiuscola, cioè di artista in possesso di un proprio linguaggio e di un proprio mondo interiore sempre perfettamente coerenti. Si apprezzano, al contrario, molti dei singoli film (spesso partendo proprio dal meno personale, La guerra lampo dei fratelli Marx), ma si rinuncia a individuare una poetica comune dietro le centinaia di opere firmate (o non firmate) da McCarey. Il che, purtroppo, limita non solo la comprensione, ma anche l'apprezzamento di alcuni dei momenti più alti dei suoi capolavori. Prendiamo, per esempio, la scena di Un amore splendido in cui Cary Grant e Deborah Kerr si accomiatano dall'anziana Cathleen Nesbitt. Un attimo prima di vederli partire, la padrona di casa si mette al pianoforte e accennando una melodia dà vita a un piccolo intermezzo musicale, un momento tutto “interiore”, in cui il mondo esterno per un istante diventa soltanto un'eco lontana, fuori campo (come la sirena della nave in partenza). È chiaro che, se giudichiamo questa scena secondo le convenzioni (convenzioni) narrative imperanti, potremmo trovarla non dico inverosimile ma almeno poco probabile, cioè non del tutto rispondente alle nostre attese di spettatori hollywoodiani. Ma se invece conosciamo l'universo di McCarey e sappiamo quanto peso vi abbiano la musica, i pianoforti, gli spazi fuori dal tempo e i rumori fuori dalla scena, ecco allora che le scelte espressive acquistano un valore aggiuntivo, non solo perché entrano in rapporto dialettico con altre scelte simili in altri contesti simili, ma soprattutto perché siamo in grado di capire come il lavoro di un artista vada misurato innanzitutto con il metro della coerenza verso se stesso, e non verso convenzioni di maniera dettate dall'esterno.
Sono molti, indubbiamente, i tratti distintivi che in questo senso caratterizzano e definiscono l'opera di McCarey, riconoscibilissima non meno di quella di un Hitchcock o di un Fellini, ma stilarne un repertorio completo e dettagliato è un'impresa che va ben oltre le nostre attuali possibilità. Si tratta alle volte di semplici figure o ambientazioni ricorrenti, spesso vagamente autobiografiche (per esempio il mondo della boxe, frequentato in gioventù e recuperato per The Battle of Century, Belle of the Nineties e La via lattea), ma anche di motivi più complessi come quelli che ruotano intorno alla famiglia (Il buon samaritano, Missili in giardino), alla vecchiaia (Cupo tramonto, La mia via) o alla giustizia (L'orribile verità, Le mie due mogli), fino a certi personaggi ossessivamente presenti (padri di famiglia, anziani, sacerdoti, giudici) che si ricollegano direttamente ai grandi temi affrontati (l'accettazione dell'altro, la comunità, la progressione spirituale, la dignità, la fede). Senza dimenticare, ovviamente, tutto ciò che compete più strettamente al linguaggio, ovvero lo stile, fatto di dilatazioni temporali (basti pensare alle comiche di Stanlio e Ollio, praticamente inventati da McCarey), di registri diversi che si compenetrano (Cupo tramonto e Un grande amore sono commedie che fanno anche piangere o melodrammi che fanno anche ridere?), di un uso spesso sublime del fuori campo (il divano che cela l'infermità della Kerr nel già citato Un amore splendido, come anche l'altro divano che nasconde alla vista l'omicidio in Belle of the Nineties), di una musica quasi sempre “in scena” come elemento concreto dell'ambientazione (molte canzoni, fra l'altro, sono opera dello stesso regista), ma anche di un occasionale ricorso al silenzio che sembra prolungare fino agli anni Cinquanta la lezione del muto (alcuni dei momenti più esilaranti di Un amore splendido, come l'arrivo della nave a New York, sono costruiti esclusivamente sul gioco malizioso degli sguardi).
Nell'impossibilità di affrontare adeguatamente o anche soltanto di elencare tutti questi ingredienti, ho pensato per il momento di circoscrivere la trattazione ad alcune figure ricorrenti e del resto fondamentali, quelle cioè che ruotano intorno alla religione. Al tempo stesso, nel tentativo di riproporre la vertigine iniziale da cui è nato il mio interesse per McCarey, ho anche scelto di affrontare il discorso attraverso un accostamento di immagini e situazioni tratte dai film più diversi, in un esercizio critico che è forse più di montaggio che di scrittura, sintetico più che propriamente analitico.
Proprio per constatare la fondatezza di questa tesi autorialista, partiamo dunque dalla fase forse meno “personale” del nostro autore, cioè quel periodo che va dal 1933 al 1937 e che vede McCarey alle dipendenze della Paramount. Si tratta di film che molti hanno considerato “di transizione” nella misura in cui sembrano spesso costruiti soprattutto intorno alla presenza di attori comici di grande richiamo (i fratelli Marx, Mae West, Harold Lloyd), con poco spazio concesso all'iniziativa del regista. Lo stesso McCarey, che all'epoca delle comiche mute era sempre o quasi sempre autore delle proprie sceneggiature, qui si trova invece a lavorare molto spesso con copioni scritti da altri, che ben rispecchiano il gusto “East Coast” della Paramount di quegli anni, molto legata al teatro leggero e all'ambiente newyorkese. Ciò non toglie, naturalmente, che la proverbiale tendenza all'improvvisazione permetta comunque a McCarey di manipolare e personalizzare tutti quegli elementi che sente più vicini alla propria sensibilità. Un esempio perfetto, per tornare al fulcro del nostro discorso, è riscontrabile in Belle of the Nineties (1934), film apparentemente costruito su misura per la verve sboccata di Mae West, che risulta anche unica sceneggiatrice accreditata nei titoli di testa. Come in tutti i suoi copioni, anche qui siamo alle prese con una commedia musicale in cui una vamp mangia-uomini si trova a dover maliziosamente scegliere fra più aitanti pretendenti, casomai incrociando nel frattempo intrighi e delitti. Nel caso in questione, si tratta infatti di una cantante da night club che, dopo aver rinunciato a un giovane pugile per non comprometterne la carriera, se lo ritrova a New Orleans, invischiato in un giro di incontri truccati e diamanti rubati. C'è da dire, per la verità, che con il consolidarsi delle norme di autocensura (il famigerato Codice Hays, in vigore proprio dal 1934), le avventure della West si addolciscono un poco, venandosi di un romanticismo più marcato che conduce casomai a finali redentori (si veda anche Klondike Annie di Raoul Walsh, 1936), ed è proprio in questa direzione che emerge bene quello che può essere stato l'apporto decisivo di McCarey. C'è una lunga scena musicale, nello specifico, che nasce proprio da precise scelte registiche e che, da sola, risolve in termini puramente cinematografici il tema della redenzione della protagonista: Ruby ha appena rivisto Kid e, in una delle sue tipiche gare d'astuzia, è decisa a fargli scontare ogni inganno subito, ma al tempo stesso -suo malgrado- sente anche risorgere l'amore per lui. È proprio mossa da questo sentimento quasi imprevisto che Ruby finirà per abbandonare la propria vita equivoca, e questa trasformazione incipiente è appunto suggerita attraverso il montaggio, che accosta la protagonista a un raduno religioso che si tiene in strada, poco lontano dalla sua finestra.
C'è chi ha interpretato questa scena come un semplice numero da vaudeville, una spiritosa parodia della tradizione afroamericana di New Orleans, ma se McCarey al solito non risparmia qualche ironia al fervore del pastore nero (“Che cosa ha fatto il Diavolo per noi? Niente!”), mi sembra evidente che lo splendido vitalismo delle immagini si traduce presto in una celebrazione dell'ingenua fede dei neri. È proprio attratta da questa esplosione di energia che Ruby si riavvicina a se stessa, getta la propria maschera di vamp e, per una volta, dà voce ai propri sentimenti più intimi. (Da notare l'abito “floreale”, indossato solo in questa scena, che sembra richiamare il rampicante del balcone, quasi a suggerire una nuova sintonia con la Natura.) La canzone che dà voce al turbamento di Ruby, Troubled Waters, nasce e si compenetra allora con il coro dei fedeli, da cui riprende e sviluppa i temi della redenzione e dell'innocenza.

Oh, I'm gonna drown/down in those troubled waters
they're creeping round my soul/they're way beyond control
and they'll wash my sins away before morning.
They say that I'm one of the Devil's daughters
they look at me with scorn./I'll never hear that horn
I'll be underneath the water Judgement morning.
Oh, Lord, am I to blame?/Must I bow my head in shame
if people go round scandalising my name?
(Oh, sto per annegare/in queste acque turbolente
formano un vortice intorno alla mia anima/sono fuori controllo
e prima di mattina avranno lavato via i miei peccati.
Dicono che sono una figlia del Diavolo
mi guardano con disprezzo./Non ascolterò mai quella chiamata
perché il giorno del Giudizio sarò già sott'acqua.
Oh, Signore, sono da biasimare? Devo abbassare il capo con vergogna
solo perché la gente va in giro a sparlare di me?)
C'è tutto il peso della colpa, il senso di perdizione (l'annegamento), ma al tempo stesso un'ansia di rinascita, di resurrezione, tanto che le acque “turbolente” sembrano invocare una sorta di battesimo purificatore (e infatti, dopo essere scampata al solito rogo conclusivo, Ruby finirà sposata, in una ovvia progressione logica, di sacramento in sacramento). Le due immagini del fuoco e dell'acqua, non a caso, tornano vividissime nella scena della funzione, ma quel che è più stupefacente è il modo in cui, tramite il montaggio e le sovrimpressioni, il singolo (Ruby) e la collettività (i neri) finiscano da ultimo per fondersi in una sola immagine, con un senso di comunione che diventa per l'appunto sintesi di questo intimo percorso verso la redenzione.
Se qui il discorso resta però ancora confinato ai margini e risolto in termini strettamente linguistici, nei film di cui McCarey è autore completo (soggetto-produzione-regia) la spiritualità acquista un'importanza sempre più evidente, connotando anche i personaggi e gli snodi narrativi in primo piano. Un esempio (duplice) è il dittico composto da Un grande amore (Love Affair, 1939) e il suo remake, Un amore splendido (An Affair to Remember, 1957), che pur raccontando la più classica delle storie d'amore sono anche opere pervase da una visione profondamente spirituale dell'esistenza umana. Si tratta peraltro di un esempio di auto-rifacimento talmente fedele che accostare i due testi, come dicevamo, significa davvero lasciar emergere una rete di corrispondenze che va ben oltre la semplice “copia”.
Durante un viaggio in nave verso gli Stati Uniti, un uomo e una donna si incontrano e, pur essendo entrambi già impegnati, non riescono a soffocare il sentimento autentico che sentono nascere dentro di sé. Approfittando di una tappa della crociera, i due si recano a trovare la nonna di lui, un'adorabile vedova che ormai si è ritirata dal mondo e non aspetta altro che la morte per riunirsi al marito. Qui, visitando la piccola cappella privata della signora, i due protagonisti si trovano anch'essi al cospetto di se stessi, lontani da ogni contingenza, e per un attimo non hanno più nulla da nascondersi, ma devono fronteggiare i grandi interrogativi della vita. Entrambi si riconoscono allora per quel che sono, due perdenti, due artisti falliti che non si sono mai davvero messi alla prova e che adesso, per interesse, sarebbero anche disposti a rinunciare ai propri sentimenti pur di salvaguardare i rispettivi matrimoni di convenienza. Se per Belle of the Nineties potevamo ancora parlare, forse un po' impropriamente, di “redenzione”, qui non è tanto in discussione il peccato o l'errore dei protagonisti (verso cui, anzi, McCarey ha da subito dimostrato calorosa simpatia), ma il raccoglimento nella cappella diviene momento di elevazione spirituale soprattutto perché i personaggi si allontano per un istante dalla dimensione quotidiana per guardare dentro di sé. E la sirena della nave, destinata a rompere quell'idillio, diventa così anche una sfida: trasportare quel momento di ascesi nel mondo concreto di tutti i giorni.
Paul Vecchiali ha suggerito che, specie nel remake, la sequenza della visita alla nonna avrebbe quasi un carattere di viaggio nell'aldilà, con la vecchia donna ridotta a poco più di un'ombra. Già nell'originale, del resto, la vedova salutava i due innamorati senza mai varcare la soglia del suo giardino: “Qui è fin dove posso arrivare. Questo è il confine del mio piccolo mondo”. Al che Terry le rispondeva: “È un mondo perfetto. Grazie per avermelo lasciato visitare”. Questo microcosmo armonioso, che somiglia in tutto e per tutto a un piccolo paradiso, resta però soltanto una breve sosta nel percorso dei personaggi, proprio perché il lungo viaggio che li attende non prevede ancora pause mistiche.
Terry: Mi piacerebbe restare qui per sempre.
Nonna: Ma lei è ancora così giovane. Questo è senz'altro un bel posto per sedersi e ricordare. Ma lei deve ancora costruire i suoi ricordi.
Il paradiso, in altre parole, va guadagnato, costruito sulla terra giorno per giorno. Quella serenità intravista deve essere una meta, non un oggetto di contemplazione. I protagonisti lo capiscono talmente bene che decidono allora di concedersi un'altra possibilità per essere felici: stabiliscono che ognuno dei due cercherà la propria strada da solo, rinunciando a facili scorciatoie, e fra sei mesi si ritroveranno per mettersi alla prova. Il luogo dell'appuntamento sarà l'Empire State Building, perché come spiega appunto Terry “è la cosa più vicina al paradiso”. Questa tensione anche figurativa verso l'alto, sottesa a molti film del regista, traduce in immagini una dialettica continua fra cielo e terra, che trova l'altra sua espressione più tipica proprio nel proliferare di piccoli paradisi terrestri.
McCarey aveva addirittura progettato per anni un suo film su Adamo ed Eva (ironicamente citati anche in Le mie due mogli), ma a prescindere da ogni riferimento esplicito il suo è un cinema in cui l'iconografia classica dell'Eden si ripresenta spesso dissimulata sotto altre vesti. Quel che è importante sottolineare, soprattutto in relazione al dittico La mia via/Le campane di Santa Maria (1944-45), è però proprio l'ossimoro su cui si basa la stessa espressione paradiso terrestre: un luogo celestiale eppure terreno, in cui lo spirito non può fare a meno della materia. McCarey, da cattolico, concepisce infatti il cristianesimo come una religione “mondana”, che ha bisogno di confrontarsi costantemente con la Realtà, casomai per redimerla, ma innanzitutto per accettarla come dato di fatto, come punto di partenza e condizione necessaria per raggiungere la Salvezza. I giardini coltivati dai suoi sacerdoti, di conseguenza, finiscono immancabilmente per essere attraversati e minacciati da ladri di polli, speculatori, attaccabrighe e persino militanti comunisti, ma queste “contaminazioni” sono inevitabili, nel senso che fanno parte della natura stessa della vita su questa terra. I giardini sono aperti a tutti, non esiste confine fra sacro e profano, proprio perché nessun comportamento esula dalla sfera dell'umano. Coltivare un paradiso in terra, insomma, non è un modo per fuggire dal mondo, ma un modo per prepararsi ad accoglierlo.
Strettamente connaturata a questa visione di un cattolicesimo “mondano” (o “intramondano”) è anche la rappresentazione che McCarey ci restituisce dei suoi sacerdoti. I due film dedicati a padre O'Malley non raccontano soltanto le divertenti avventure di un parroco progressista, né si riducono come qualcuno vorrebbe a un'operazione simpatia a favore della comunità cattolica americana. C'è qualcosa di più radicale, infatti, nella scelta di affrontare tematiche così delicate attraverso i codici della commedia romantica e dello slapstick puro. Una prima conseguenza, la più ovvia, è che preti e suore per una volta si presentano sullo schermo privi di qualsiasi alone “sacro”: uomini e donne che mangiano e bevono come noi, con lo stesso piacere, che giocano a golf (barando) e a baseball (rompendo finestre), che sanno essere orgogliosi del proprio lavoro e anzi faticano non poco ad accettare imposizioni dall'alto (non importa quanto in alto). Esseri umani non privi, peraltro, di una propria sessualità: O'Malley, nel primo film, ritrova la donna che ha amato in gioventù, e quando canta con trasporto The Day After Forever possiamo senz'altro indovinare come anche lui abbia sperimentato le gioie dell'amore; mentre il secondo film, addirittura, non si fa problemi a suggerire l'attrazione che si instaura fra un prete e una suora che vivono e lavorano insieme, come marito e moglie, anche se poi naturalmente l'amore resterà del tutto platonico, ed entrambi rinunceranno ai propri sentimenti nell'interesse collettivo, come se la coppia venisse riassorbita in una sacra famiglia più ampia. Ma al di là di tutto questo, che già sarebbe notevole, è l'impianto slapstick quello che colpisce ancora oggi, proprio perché la “commedia degli imbarazzi” tipica di McCarey non si fa scrupoli e non mostra nessuna deferenza davanti all'abito talare: si veda per esempio la scena, esilarante, in cui la suora Ingrid Bergman prova a insegnare a un ragazzino come si tira di boxe e durante la lezione si becca un destro in piena faccia. La protagonista, una donna di chiesa, finisce in pratica per essere usata come un sacco da pugilato... La questione, vista in un'ottica religiosa, è molto più delicata di quel che si potrebbe pensare. Nel suo celebre saggio, Il riso, Bergson riporta fra gli altri l'esempio dell'oratore che, nel bel mezzo di un sermone, prorompe in un sonoro starnuto, e l'effetto risulterebbe comico perché “richiama la nostra attenzione sul fisico laddove ciò che è in causa è morale”, cioè perché si crea una frattura fra spirito e materia. Al contrario, per McCarey la genialità del cristianesimo sta proprio nel suo essere una religione incentrata sulla carne, in cui non c'è frattura ma dialogo fra fisicità e spiritualità: un prete con il culo a mollo non perde una briciola della propria dignità, proprio perché il suo essere ridicolo non gli impedisce di essere umano, quindi a immagine e somiglianza di Dio. La messa in scena, ancora una volta, insiste non a caso sulla fisicità, sul peso dei corpi, e questo fin dalle primissime apparizioni di padre O'Malley.
Nel primo film, giocando ancora una volta con il fuori campo, McCarey ci fa inizialmente ascoltare solo la voce del prete (che sarebbe poi quella di Bing Crosby, uno dei cantanti più famosi d'America), che ha smarrito la strada per la parrocchia e si ferma a chiedere indicazioni. La sua prima apparizione in campo è dal punto di vista della casalinga che gli risponde arcigna dalla finestra, quindi dall'alto, con una prospettiva che schiaccia verso il basso questa “voce fatta corpo”, accentuandone la dimensione terrena (da notare anche l'illuminazione, particolarmente plastica). Altrettanto azzeccato, nel sequel, è l'arrivo di O'Malley a St. Mary's: come prima cosa si appoggia a una parete e non si accorge che, col suo peso, sta azionando la campanella della scuola, scatenando il panico nelle classi; subito dopo, presentandosi alle suore riunite per l'occasione, si siede distrattamente su una sedia e finisce per schiacciare il loro amato gattino domestico (che subito dopo, chiaramente, si prenderà la sua vendetta). L'imbarazzo, in entrambi i casi, nasce proprio dal corpo, dalla sua incapacità di coordinarsi con l'ambiente circostante, ma al tempo stesso anche il percorso di comunione non può che nascere da qui, da questo incontro di corpi, dunque di anime. La “commedia degli imbarazzi” di McCarey, il sorriso affettuoso che ne scaturisce, sembra volerci ricordare proprio questo: caro cardo salutis, la carne è il cardine della salvezza.

Nonostante l'accoglienza trionfale riservata a entrambi i film, che ottengono anche un totale di otto Oscar, McCarey rifiuta di tornare a lavorare una terza volta su padre O'Malley, concentrandosi piuttosto sulla preparazione del suo Adamo ed Eva, che come dicevamo non troverà purtroppo mai una forma compiuta. L'ultimo suo film, Storia cinese (1962), recupera però qualcosa di entrambi i progetti, combinando insieme molti degli elementi che abbiamo analizzato fin qui. Si tratta di un'opera di cui non è facile parlare, soprattutto perché il risultato finale, che non soddisfaceva lo stesso regista, sconta tutta una serie di intromissioni e incomprensioni con la produzione e con gli stessi collaboratori (William Holden in testa), che portarono addirittura McCarey ad abbandonare il set durante l'ultima settimana di riprese. Lo stesso finale, per intenderci, risulta pesantemente adulterato rispetto a quello originario voluto dall'autore, che avrebbe invece previsto il sacrificio del protagonista (e che scatenò, neanche a dirlo, le proteste di Holden). Ciò non toglie, però, che la mano invisibile del l'autore sia presente in ogni inquadratura, e che proprio per questa sua parziale “incompiutezza” il film ci parli con una sincerità e una lucidità che mettono persino a disagio.
Ambientato nella Cina del 1949, il racconto ruota intorno a due missionari cattolici che si ritrovano a dover fare i conti con l'avanzata dell'esercito comunista, in cui nel frattempo si è arruolato anche un ex discepolo della missione, Ho San, disposto adesso a imporre con la violenza la sua nuova dottrina socialista. Nel consueto alternarsi di dramma e farsa, McCarey sceglie insomma di confrontarsi con la Storia riconducendola come sempre al livello basilare dei rapporti umani, accarezzando ancora una volta quelle figure che gli sono care, ma stavolta l'operazione punta ancora più in alto. Il tema fondamentale che ne scaturisce, spinosissimo, è infatti quello annunciato già dal titolo originale del film, Satan Never Sleeps (“Satana non dorme mai”): perché la Storia deve invariabilmente essere scritta con il sangue degli innocenti? Perché Dio (se esiste) permette la sofferenza dell'uomo? E, soprattutto, come può un cristiano rapportarsi alla violenza della Storia? Deve prenderne le distanze, scenderci a patti o affrontarla ad armi pari? Va da sé che la grandezza del film non consiste certo nel fornirci risposte astratte o preconfezionate, quanto piuttosto nella capacità di calare queste problematiche all'interno di una realtà complessa e travagliata, componendo un grande affresco dell'esistenza umana. È vero, McCarey è un anticomunista, e dei più agguerriti, ma è anche disposto a rimettere in discussione con la stessa ferocia tutto quello in cui crede, senza fare sconti a nessuno, nemmeno a se stesso, ed è proprio in questa onestà intellettuale che risiede il suo massimo pregio.
Lo schema dei personaggi, come accennavamo, recupera quello dei film con padre O'Malley. Anche in questo caso un giovane prete irlandese, O'Banion, affianca dunque un vecchio sacerdote dai modi burberi, padre Bovard, ma qui la situazione è complicata dal ritorno di Ho San, una specie di rinnegato della fede, quasi un prete spogliato. Il rapporto fra lui e O'Banion, curiosamente, è di natura speculare, perché più che antagonisti i due personaggi sono in pratica risposte diverse al medesimo interrogativo: ammesso che quella cristiana è una religione “mondana”, quanto è legittimo, per un credente, prender parte alla Storia? Quanto peso va concesso alle passioni terrene se, in fondo, la nostra esistenza dev'essere proiettata soprattutto verso un fine ultraterreno? Ho San, davanti alla Rivoluzione, ha deciso di giocarsi tutte le carte qui su questa terra, rigettando la propria vocazione religiosa, mentre invece O'Banion, pur fra mille incertezze, continua a vestire l'abito sacro, quindi a confrontarsi con la realtà senza perdere di vista la propria dimensione spirituale. In fondo entrambi coltivano una profonda fede nella possibilità in un mondo migliore, solo che hanno scelto strade opposte per arrivarci.
Il confronto fra i due, fra l'altro, è complicato proprio da quella dimensione individualistica a cui entrambi -in teoria- dovrebbero rinunciare in nome della propria dottrina comunitaria. Lo scontro si accende infatti anche a livello personale quando entra in gioco una ragazza dal carattere vivacissimo e indipendente, Siu Lan, oggetto del desiderio tanto per l'uno quanto per l'altro. Lei in realtà è innamorata perdutamente di padre O'Banion, per cui nutre un sentimento adolescenziale, purissimo, che il sacerdote non può però apertamente ricambiare. Non di meno, l'attrazione sotterranea che O'Banion prova per questa ragazzina selvaggia, quasi una piccola Eva, rispecchia anche la sua costante tentazione di intervenire nella Storia, il desiderio di rinunciare ai voti per misurarsi alla pari con la violenza del mondo. Una sola volta la sua fede sembra davvero vacillare: quando Ho San importuna Siu Lan e lui corre a salvarla. Sbattendogli in faccia la sua “stupida religione”, il comunista allora lo schiaffeggia, invitandolo a porgergli l'altra guancia: “Il buon cristiano rifiuta la violenza. Ora vediamo come metti in pratica la tua religione”. Quando O'Banion, esasperato, finisce per battersi con lui, non possiamo che domandarci: è ancora il sacerdote che agisce, o è l'uomo innamorato?
Il vecchio missionario, padre Bovard, in tutto questo ci appare invece come una creatura che ha ormai rinunciato a qualsiasi intervento diretto sulla realtà, abbandonandosi nella mani della Provvidenza. “Tutto accade per il meglio” ama ripetere. Anche con lui, con la sua presunta “saggezza”, McCarey non è affatto tenero: ne fa uno spettatore passivo, incapace peraltro di comprendere molti degli eventi che gli ruotano attorno. Questo emerge, in particolare, nella scena più atroce del film, quella in cui Siu Lan viene stuprata da Ho San. O'Banion, trattenuto a forza dai soldati, può soltanto assistere impotente, mentre sotto i suoi occhi un'innocente sconta sulla propria pelle la violenza della Storia. Bovard invece nel frattempo dorme, senza accorgersi di niente, e il primo piano che McCarey gli dedica è qualcosa come un grido di dolore: anche Dio, quella notte, dormiva? Il mattino dopo, come non bastasse, lo stesso Bovard -ignaro di tutto- rassicura la giovane Siu Lan sui piani imperscrutabili della Divina Provvidenza, e McCarey, con perfidia sottile ma implacabile, ci mostra subito dopo un soldato che frantuma gli occhiali del prete: com'è possibile salvare delle anime se non si vede nemmeno quel che accade sotto i propri occhi?
Ma è qui che, senza scadere nell'opera a tesi, il film si libera di qualsiasi schematismo e lascia procedere i personaggi per la propria strada, senza negare a nessuno la propria umanità, cioè la possibilità di dimostrarsi diversi da quel che si è stati. “C'è del buono in tutti”, aveva detto Bovard, e sta all'imponderabilità della vita dimostrarlo. I progetti che ciascuno aveva fatto per il proprio futuro vengono infatti puntualmente smontati e rimontati dal corso degli eventi, e ogni personaggio è costretto a confrontarsi con un assetto imprevisto della realtà, con un ordine nuovo e misterioso. L'uomo propone, e qualcun altro dispone. Siu Lan, rimasta incinta, dà alla luce il bambino che l'amore sterile per O'Banion non avrebbe mai potuto regalarle. Dalla violenza e dall'umiliazione, per assurdo, nasce la benedizione di una nuova vita, la possibilità di realizzare il proprio sogno di madre. Lo stesso Ho San, davanti a quel frugoletto che gli somiglia tanto, ha un istante d'incertezza, e si rende conto di essersi appena preso una bella responsabilità, di dover rinunciare alla carriera che tanto desiderava. Finito sotto inchiesta perché sospettato di spiccate simpatie cattoliche, decide allora di fuggire e portare con sé il bambino, la donna e i due preti. Tutto assolutamente imprevedibile, si direbbe, ma proprio qui sta la capacità del film di rappresentare senza enfasi e senza forzature l'imprevedibilità della vita. “Tutto accade per il meglio”, forse è vero, ma chi può stabilire in che cosa consista questo “meglio”?
Ricercati dall'esercito, i fuggitivi si trovano però a un certo punto inseguiti da un elicottero, senza più vie di scampo, ed è qui, infine, che il dilemma iniziale trova una possibile risposta: come si comporta un cristiano davanti alla violenza della Storia? Padre Bovard, che per tutto il film si è rifiutato di agire, sceglie di percorrere l'unica via possibile, il martirio: porgendo l'altra guancia, si sacrifica perché gli altri possano continuare a vivere. La sua morte, da testimone della fede, permetterà al bambino, attraverso il battesimo, di iniziare una nuova vita da cristiano, di portare avanti i suoi ideali.
Il nome scelto dalla mamma per il neonato è un capolavoro di ecumenismo e comunione: Ho-ban-yun. “Vuole mantenere sia il tuo nome che quello della mia famiglia”, spiega Ho San a O'Banion. Il bambino in altre parole ha due padri, uno “spirituale” (vergine) e uno biologico, è figlio dell'Amore ma anche della Violenza, del Cielo come della Terra. Il mondo, per McCarey, non può esistere che come un dialogo, ininterrotto, fra noi e l'Altro, fra lo Spirito e la Materia, fra il Dolore e la Salvezza. Nel sorriso un po' furbetto della madre, che ci fa addirittura l'occhiolino, c'è la determinazione di una donna che, fra mille sofferenze, ha imparato che tutto nella vita ha un senso, che ogni cosa prima o poi andrà al suo posto. La tormentata serenità di un Maestro.

lunedì 24 settembre 2012

Memorabilia (3)




Il cinema tedesco, stampato a Roma nell'agosto nel 1942, è una sorta di prezioso almanacco del cinema di regime, un who's who della produzione nazista di quegli anni. L'editore vero e proprio è la Germania Film, un ente nato come vedremo nel 1940 con lo scopo di promuovere un gemellaggio cinematografico sull'asse Roma-Berlino, ma quel che più colpisce è la curatela del volumetto affidata a un intellettuale italiano di un certo nome, vale a dire quel Giuseppe Marotta che già all'epoca collaborava con pubblicazioni come “Il Corriere della Sera” e “Film” e che, accanto a occasionali incursioni in sceneggiatura, fungeva appunto in quegli anni anche da “capo ufficio stampa” per la Germania Film.
Il sommario del volume è presto riassunto: dopo due inquietanti ritratti a tutta pagina del dott. Joseph Goebbels e del consigliere ministeriale dott. Fritz Hippler, una nota riassume lo statuto e gli scopi intorno a cui si informava l'attività della Germania Film, che come ci spiega l'articolo L'organizzazione industriale della cinematografia germanica si inseriva naturalmente in una più ampia politica culturale della cinematografica tedesca, ormai completamente nazionalizzata e controllata attraverso la UFA. (Quest'ultimo testo era peraltro già apparso, con la firma di Antonio Latanza, sul n. 138 della rivista “Cinema”, 25 marzo 1942). Segue un agile dizionario illustrato di registi e attori tedeschi, strumento in verità ancora oggi piuttosto utile, anche perché ci fornisce un compendio della carriera di personalità come Helmut Käutner e Willy Forst inquadrate nell'ottica del loro tempo.


Ma, al di là del valore collezionistico, ci sono tutta una serie di domande che questo volume non può non sollevare: quale fu, effettivamente, la circolazione e la diffusione del cinema nazista nell'Italia fascista? Quale la posizione degli intellettuali, critici o cineasti che fossero? Quale, infine, la ricezione del pubblico, prima e dopo l'8 settembre? Domande cui non è facile rispondere, non esaustivamente, e con cui non mi sembra molti storici si siano adeguatamente confrontati.
Intanto va precisato che la produzione tedesca, anche prima dell'avvento nazista, fu naturalmente una delle prime in Europa, e il numero di film immessi sul mercato italiano fu sempre abbastanza rilevante, con una media di 35-50 titoli già nei primissimi anni del sonoro. Fra le altre, suscitarono inoltre da subito una notevole impressione opere come Ragazze in uniforme (premiato a Venezia 1932) e Il congresso si diverte, e non mancarono già allora collaborazioni, co-produzioni e doppie versione italo-tedesche, favorite anche dalle carriere parallele condotte in Italia e Germania da registi come Carmine Gallone e Nunzio Malasomma. È dall'accordo politico del 1936, comunque, che tali collaborazioni si infittirono, tanto che già nel dicembre di quell'anno venne fondata la Tobis Italiana, che avrebbe poi agevolato operazioni come Condottieri e da cui più tardi sarebbe appunto nata la Germania Film.
Se però andiamo a vedere i numeri concreti, non mi sembra che tutto questo provochi istantaneamente una moltiplicazione dei film tedeschi che circolano nelle nostre sale, visto che nonostante l'embargo (parziale) al cinema americano si dovrà attendere soltanto il 1941 per assistere a un reale incremento della quota di mercato riservata alle opere tedesche ammesse in prima visione, che in quell'anno raggiungerà quota 72 titoli (il doppio di quelli americani). Ma, anche qui, non è così facile valutare il reale intervento propagandistico della Germania Film, visto che per il momento i vari film escono per le società di distribuzione più disparate (ENIC, Artisti Associati, Minerva), e non sembra ancora propriamente consolidato quel regime monopolistico che viene invece annunciato nell'agosto 1942 a favore della Film Unione, direttamente controllata dai nazisti e citata infatti nel volume di Marotta come unico noleggiatore italiano autorizzato. Nei primi mesi del 1942, per esempio, un film notevole (e sottilmente amaro) come Arrivederci, Francesca! di Helmut Käutner era ancora distribuito da Manenti, mentre l'attività della Film Unione pare assumere un peso decisivo soltanto dai primi mesi del 1943, quando inizia davvero a monopolizzare la circolazione dei prodotti tedeschi, lasciando nelle mani di Scalera e Generalcine solo qualche fondo di magazzino delle stagioni precedenti. Non è evidentemente facile ricostruire le traversie cui andrà incontro la programmazione cinematografica nei mesi successivi, visto che persino il materiale censorio è spesso lacunoso, ma sulla scorta dei dati più o meno certi, è comunque ragionevole supporre che fra il 1943 e il 1944 la Film Unione abbia distribuito (o cercato di distribuire) almeno 49 titoli, compresi fra gli altri Il grande re e La tragedia del Titanic. Un listino, in ogni modo, ben lontano dalla quota di mercato raggiunta nel 1941, che resta in questo senso l'anno di massima diffusione del cinema nazista in Italia.
Altrettanto ambiguo è anche il rapporto con la stampa e la critica specializzata, visto che per i film tedeschi del periodo viene spesso adottata una duplice linea editoriale: nelle manifestazioni più o meno ufficiali non manca mai un riconoscimento alle doti se non altro tecniche del cinema tedesco, così come non mancano lunghi editoriali sulla comune missione “civilizzatrice” della produzione italiana e tedesca, ma se poi andiamo a vedere le recensioni pubblicate su “Cinema” all'uscita in sala dei singoli film ecco che il discorso si fa più contraddittorio. Critici militanti (e futuri cineasti) come Giuseppe De Santis e Carlo Lizzani, pur fra mille elogi programmatici, non rinunciano infatti talvolta a (caute) stroncature di produzioni importanti come La città d'oro (“fredda, banale e fastidiosa”) e Annelie (“grande lentezza e monotonia”). Rimane celebre, è vero, la corrispondenza da Venezia di Michelangelo Antonioni su Jud Süss, in cui si parla di “consistenza artistica palpitante” (“Cinema”, n. 102, 25 settembre 1940), ma su molti altri film, nonostante le veline di regime, il giudizio almeno estetico rimane insomma in fin dei conti abbastanza “indipendente”. Tanto che, persino in un articolo apertamente propagandistico (Un anno di cinematografia tedesca, “Cinema”, n. 148, 25 agosto 1942), tale Vincenzo Bartoccioni può permettersi fra le righe una annotazione – per noi preziosissima – sull'accoglienza che il pubblico italiano effettivamente riservava a molti dei film tedeschi che gli venivano proposti:
Avviene spesso che il nostro pubblico, vale a dire quello di un popolo meridionale e latino, riscontra nei film tedeschi una certa pesantezza che provoca alle volte un senso di tedio, anche se il film che si proietta contiene dei valori effettivi. Una delle cause di questo fenomeno mi sembra che sia da attribuirsi all'eccessiva lunghezza dei dialoghi, che spesso fanno del cinema tedesco un vero e proprio teatro filmato.
Un ultimo cenno, infine, alla demonizzazione che colpì la produzione nazista nell'immediato clima post-Liberazione. Processo di negazione e rimozione comprensibilissimo ma forse non così radicale come si potrebbe credere, se è vero che diverse società di distribuzione si affrettarono a rinnovare il visto censura per alcuni film tedeschi già distribuiti con un certo successo (per esempio Anuschka, ancora del benemerito Helmut Käutner, ma anche Il perduto amore di Veit Harlan). Un'altra delle tante ambiguità dell'epoca, che ben si rispecchia in un curioso scambio epistolare apparso il 19 gennaio 1946 sulle pagine di “Star”, in cui un lettore “nostalgico” arrivava a lamentarsi dello scarso rispetto tributato a quelle opere che, nel bene come nel male, avevano comunque segnato un'intera epoca:
Un lettore che tiene a conservare l'incognito, firmando con una semplice lettera D, ci rimprovera di aver definito i film tedeschi mediocri e noiosi in un nostro articolo apparso sul n. 46 di “Star”. Il lettore definisce quei film pari ai migliori americani e ci dice che se fossimo stati a Milano durante l'occupazione tedesca avremmo potuto sincerarci della bontà della sua affermazione. “Il barone di Munchausen, Perduto amore e La città d'oro – prosegue il lettore – rivelano un'arte da noi mai raggiunta”. Abbiamo avuto il tempo di vedere La città d'oro e cento altri film tedeschi, né crediamo che Munchausen e Perduto amore contengano soli tutte quelle belle qualità che l'anonimo lettore ci rimprovera di aver trascurate e negate. La città d'oro ce l'abbiamo ancora sullo stomaco. A parte alcune piacevoli inquadratura di Praga e la corsa a cavallo sui prati e la scena notturna della seduzione, noi crediamo che il regista Veit Harlan abbia sciupato parecchia pellicola. Ci dica il nostro contraddittore cos'altro c'era di buono in quel film: forse le scampagnate sulle rive del fiume? O gli interminabili interni della casa di Tony o il festino nuziale o la ricerca della protagonista ch'è andata a suicidarsi? Queste cose ci sono rimaste sullo stomaco e ci rifiutiamo di crede che possano esser piaciute a uno spettatore di buon gusto. I registi tedeschi, ambiziosi come erano, usufruivano spesso di grossi soggetti che rovinavano con la loro pretenziosa sapienza. Ricorda il lettore cos'è accaduto del Viaggio a Tilsit? Ha visto il lettore Titanic di Dupont e il Titanic di Herbert Selpin? E i film del prof. Froelich, non erano dunque noiosi? È bastato che Froelich diventasse un gerarca del partito nazista perché perdesse la forza drammatica che aveva dimostrato con Asfalto, con Ragazze in uniforme, con Jugend. Ma al tempo di Asfalto e di Jugend il cinema tedesco era ancora sotto l'influenza dei grandi registi israeliti: Lubitsch, Lang, Pommer, Czinner. Partiti gli ebrei da Berlino, il cinema tedesco era finito. Non è elegante dichiarare antipatiche Cristina Soderbaum, Brigitte Horney ed Hertha Feiler, ma perbacco, Ferdinand Marian, Hans Albers, Willy Birgel e Hans Sohnker lo erano. Si sente ancora in grado l'anonimo contraddittore milanese di darci torto?