mercoledì 29 febbraio 2012

La fine della signora Wallace (The Great Flamarion, 1945)




La prima impressione che si ricava da The Great Flamarion è quella di un'occasione mancata, un senso di delusione che per la verità sembra travalicare di molto i pur evidenti limiti del film. C'entra, indubbiamente, la presenza nel cast di Erich von Stroheim, maverick e talento maledetto per eccellenza, autore che tanto avrebbe ancora potuto dare alla storia del cinema e che nel 1945, invece, era ormai lontano dalla macchina da presa da quasi 14 anni. Qualche collaborazione come sceneggiatore (da approfondire quella per La bambola del diavolo di Tod Browning, 1936), un'apparizione folgorante ne La grande illusione di Jean Renoir, ma soprattutto una lunga trafila di caratterizzazioni manierate in piccoli B movies: ecco il triste declino cui era andato rapidamente incontro colui che, ancora negli ultimi anni Venti, era stato senz'altro uno dei talenti più aguzzi del panorama internazionale. Inevitabile, dunque, leggere in chiave autobiografica il ruolo interpretato in The Great Flamarion, identificando il destino dell'interprete con quello del personaggio, un artista di varietà che, inseguendo un amore impossibile, rinuncia progressivamente alla dignità e alla vita. Un autoritratto che, a ben guardare, sembra quasi un abbozzo di quello interpretato, pochi anni dopo, in Viale del tramonto di Billy Wilder (e, tanto per dare un qualche fondamento storico a quella che è una semplice intuizione, noteremo allora en passant che il produttore di The Great Flamarion altri non è che William Lee Wilder, fratello “minore” del ben più noto Billy). D'altra parte, anche la caratterizzazione di questo film altro non è che una variazione della maschera classica che von Stroheim s'era creato, quella del famigerato “uomo che amerete odiare”, e anzi un paio delle sue elegantissime apparizioni in marsina non possono che rimandare immediatamente a personaggi come quelli interpretati in Femmine folli o Mariti ciechi. Aggiungiamoci infine che Flamarion non è soltanto protagonista ma anche narratore, e quindi – pur con qualche abituale incongruenza – l'intero racconto è mostrato dal suo punto di vista, rendendo in certa misura “automatica” l'identificazione fra attore, maschera e narratore: von Stroheim è The Great Flamarion, ovvero von Stroheim è il film. Si tratta di una suggestione cui durante la visione è inevitabile abbandonarsi, d'accordo, ma solo a patto che resti appunto una semplice suggestione, un giochino cinefilo che non metta in secondo piano il vero autore dell'opera, il regista Anthony Mann.
Al suo sesto film in soli tre anni, Mann per il momento è senz'altro lontano tanto dalle capacità quanto dai mezzi che avrebbero presto fatto di lui uno dei principali registi degli anni Cinquanta; eppure proprio con questo melodramma nero per la prima volta sembrano emergere alcuni di quei tratti che, a partire da Morirai a mezzanotte (1947), caratterizzeranno i suoi noir più memorabili. Certo, l'intreccio di The Great Flamarion sconta più di un luogo comune, e non giova al risultato finale né la ristrettezza del budget né il livello diseguale degli interpreti: ci troviamo, senza dubbio, di fronte a un'opera minore, ma non per questo meno godibile. Ridurre il piacere del cinema al racconto e alla recitazione, d'altra parte, sarebbe operazione fin troppo superficiale, mentre avventurarsi senza pregiudizi fra i titoli minori di un grande regista può fornirci al contrario un'utile palestra per arrivare a cogliere quell'impronta personale, quello sguardo atipico che è sinonimo di un autentico Autore. Il piacere che si ricaverà da The Great Flamarion, in altre parole, sarà direttamente proporzionale alla capacità che avremo di abbandonarci al gusto del cinema puro, esattamente come ci si abbandonerebbe alle pennellate di Cézanne o a un fraseggio di Mozart.

Il film, costruito attraverso l'artificio tipicamente noir del flashback, inizia dalla fine: Flamarion, sedotto e ingannato da una ballerina affinché eliminasse suo marito, ha infine rintracciato e ucciso la donna. Da qui parte la rievocazione che costituisce, come s'è detto, il fulcro del film, ma non per questo è da sottovalutare la funzione di questa cornice iniziale, che anzi ci fornisce già una chiave di lettura di tutto il racconto. La prima immagine, dopo una breve didascalia esplicativa (“Mexico City 1936”), è infatti un lungo ed elaborato movimento di macchina della durata di circa 1 minuto e 40 secondi, che a partire dall'esterno del teatro (campo lungo) ci accompagna fin sul palco, chiudendosi su una mezza figura dell'attore comico in scena. A questa immagine, rilassata e armoniosa, segue immediatamente, dopo una serie di spari, una nuova angolazione dello stesso spazio, che ci mostra stavolta contemporaneamente la scena e il dietro le quinte, entrambi sconvolti da ciò che intanto sta avvenendo fuori campo, nei camerini.
Già questa giustapposizione di immagini annuncia quel che sarà il conflitto fondante dell'intero film, cioè il rapporto fra mondo e scena, vita e arte, caos e ordine. Un tema, per esser sinceri, solo abbozzato a livello di intreccio e sceneggiatura, ma sviluppato piuttosto da Mann in termini puramente visivi. Si vedano comunque, proprio in questo incipit, lo scambio di battute fra il comico e il tecnico delle luci (“la vita non è che un palcoscenico su cui tutti recitiamo”) o la stessa scena dell'interrogatorio, in cui i vari attori sembrano prolungare anche nella vita di tutti i giorni quelli che sono i loro personaggi a teatro. Mann, del resto, arriva al cinema proprio dall'esperienza di Broadway, e alcuni dei suoi primissimi film sono incentrati più o meno direttamente sul mondo dello spettacolo (Dr. Broadway, Moonlight in Havana, Nobody's Darling, My Best Gal), quindi è più che verosimile che un discorso del genere all'epoca lo interessasse molto da vicino. Ma se a livello di scrittura il tema resta, per così dire, “scarsamente proliferante”, è proprio a livello visivo che dobbiamo allora cogliere i termini di quella drammaturgia cinematografica che più compete all'autore. Il flashback si apre sul numero di tiro al bersaglio che Flamarion inscena con Connie e suo marito Ted, una scenetta da triangolo borghese che, fin da subito, ci presenta uno dei motivi figurativi più importanti nell'economia del film, lo specchio. Quest'oggetto, che puntualmente fa impazzire la critica autorialista, diventa infatti qui un'autentica ossessione formale, che se da un lato ravviva le scenografie fin troppo cheap, dall'altro si trasforma nelle mani del regista in una preziosa risorsa espressiva. Come spesso avviene, a un primo livello il raddoppiamento dell'immagine esemplifica infatti, specie per Connie, la doppiezza del personaggio, in questo caso una tipica femme fatale, cinica e manovratrice. A un secondo livello, però, gli specchi acquistano qui il valore di schermi, evidenziando appunto il tema del rapporto fra arte e vita: è proprio attraverso un piccolo specchio da cipria, usato come retrovisore, che Flamarion controlla la scena, mentre la stessa scenografia è dominata da un grosso specchio “panoramico”, rivolto non a caso verso la platea.
Lo specchio come metonimia del teatro e il teatro, a sua volta, come metonimia dell'arte. Ma un'arte che, nel suo maniacale perfezionismo, non può che nutrirsi sadicamente di ordine e rigore: Flamarion, un ex militare che ha rinunciato alla carriera per una delusione d'amore, concepisce il palcoscenico come un universo speculare in cui ricreare, attraverso le sue pistole, un'armonia che il mondo reale gli ha negato. Lo specchio e il teatro, allora, si trasformano soprattutto in strumenti di controllo e autorità. Connie, che ha perfettamente inquadrato il personaggio e sa quali corde toccare, corre infatti subito a scusarsi con Flamarion per le intemperanze del marito, lasciandogli chiaramente intendere che anche per lei il teatro viene prima della vita, anzi è l'unico istante in cui anche lei si senta viva. Flamarion resta apparentemente freddo davanti a tanta devozione, ma rimasto solo nel suo camerino non può fare a meno di specchiarsi, quasi volesse accertarsi di non aver tradito alcuna reazione visibile alle confidenze della donna: l'ossessione per il controllo, evidentemente, comporta anche quella per l'autocontrollo. Ma il sistema di specchi, con una libertà tale da sfidare la coerenza, ritorna anche nell'inquadratura immediatamente successiva: da Flamarion allo specchio, Mann stacca su Ted nella medesima posizione, quasi a suggerire come i due uomini ricoprano per Connie una funzione assolutamente intercambiabile. Tanto che il dialogo con il marito, letteralmente punteggiato da immagini riflesse, non lascia più dubbi sulla doppiezza della donna/attrice.
Ma se lo specchio diventa epifania dell'inquadratura, e quindi della messa in scena, il dramma dei personaggi nasce appunto dal loro illudersi di poter controllare la vita esattamente come controllano la scena. È proprio facendo leva su questa ambizione sotterranea che Connie riesce a sedurre Flamarion: il dialogo in treno, sottilmente erotico, stuzzica il sadismo dell'uomo proprio perché lei si offre in mano sua come una bambola, promettendogli implicitamente di replicare nella vita reale il personaggio-manichino che interpreta a teatro. Flamarion, lusingato dalla possibilità di tornare a vivere imponendo però stavolta alla vita le proprie regole, non può che capitolare e, senza accorgersene, diventa egli stesso burattino nelle mani della donna. Lo specchio, assente nella sequenza in cui il protagonista comincia a perdere il controllo sugli eventi, è invece curiosamente richiamato in causa attraverso la voce off: “Uno sguardo allo specchio mi avrebbe convinto che io non ero fatto per lei”. L'equazione fra specchio e controllo, a questo punto, è insomma dichiarata a tutti gli effetti, anche se soltanto retrospettivamente Flamarion sarà in grado di riconoscersi attore anziché regista. Subito dopo la scena in treno, infatti, assistiamo a due suoi tentativi di manovrare Connie e Ted, ma come prevedibile si tratta ormai di regie destinate a risolversi in fallimento.
Nella prima scena, dopo aver regalato un abito nuovo a Connie, Flamarion si sente per un attimo regista, e l'inquadratura non a caso simula lo spazio teatrale. Connie, mentre si presta docilmente al suo ruolo di “bambola”, non rinuncia però nemmeno per un attimo a tener le redini del rapporto e, da autentica autrice, suggerisce già all'amante la possibilità di sbarazzarsi del marito. Flamarion, restio all'omicidio, tenta allora di allontanare Ted dalla moglie offrendogli del denaro, e ancora una volta le sue velleità di burattinaio sono tradite dal grande specchio alle sue spalle: come il regista sullo schermo, così i personaggi nella vita cercano di plasmare un'altra realtà in accordo ai loro sogni.
La sconfitta definitiva di Flamarion coincide però con la decisione di uccidere Ted durante il numero di tiro al bersaglio, simulando così un incidente. La scena in cui Connie finalmente lo convince è orchestrata come una raffinata variazione del precedente colloquio fra i due amanti: la donna, ancora una volta, recita all'interno di uno spazio dal sapore teatrale, ma stavolta Flamarion (che nella scena precedente si credeva ancora regista, restando quindi al di qua del sipario) entra anch'egli nello spazio della messa in scena, suggellando a questo punto la sua definitiva sconfitta come regista. Non più autore, ma personaggio nella commedia di qualcun altro: “Mi muovevo sul palcoscenico come un automa, come una macchina”. L'idea di compiere il delitto durante lo spettacolo, del resto, non fa che portare alle estreme conseguenze il rapporto fra vita e arte: l'omicidio deve necessariamente svolgersi sul palco, perché soltanto in quel momento Flamarion prende davvero vita, soltanto lì è effettivamente in grado di agire, di dar corso a quelle passioni che nella realtà di tutti i giorni non riuscirebbe a esprimere.
La parte che segue il delitto, nella sua inevitabile prevedibilità, mantiene pur sempre un'invidiabile coerenza: Connie e Flamarion, usciti puliti dall'inchiesta sulla morte di Ted, si danno appuntamento a Chicago, anche se, come intuiamo da subito, Connie non ha nessuna intenzione di onorare le sue promesse. Lo spazio vuoto della camera d'albergo in cui Flamarion inutilmente la attende ripropone nuovamente i temi del teatro e dello specchio.

“È un po' nudo” sentenzia Flamarion, e come su un set ordina ai fattorini dell'albergo di allestirgli nel più banale dei modi l'appartamento. Ignaro di essere stato ingannato, Flamarion è infatti arrivato a Chicago in anticipo, proprio per organizzare il loro soggiorno, ma ancora una volta non si rende conto di non aver ormai più nessun controllo sugli eventi. È ancora uno specchio, impietoso, a farsi epifania della situazione: coperto da troppi fiori, a malapena gli restituisce la sua immagine, ormai pericolosamente relegata ai margini della cornice. Il personaggio, in altre parole, è pronto a uscire di scena, non ha più alcun ruolo nella commedia architettata da Connie. Sennonché, appunto, anche la donna ha sopravvalutato le proprie capacità di commediografa, non prevedendo la reazione dell'amante tradito, deciso a tutti i costi a ritrovarla.
Le scene che ci mostrano il declino di Flamarion, pur nella loro convenzionalità, rispondono anch'esse a una funzione ben precisa: ci mostrano, cioè, come la caduta del personaggio corrisponde ineluttabilmente al suo allontanarsi dal mondo del teatro. La scena culminante, in questo senso, è quella in cui il protagonista vende la sua collezione di pistole a un banco dei pegni: è come se la rinuncia alla sua arte fosse già un preannuncio del suo suicidio. Per contro, la resa dei conti finale con Connie assume invece il valore di un'ultima ribalta d'onore.
Torna per l'ultima volta il motivo dello specchio e, anche qui, mette alla prova il controllo che i personaggi pensano di avere sulla realtà. Soltanto che le parti ormai si sono invertite, ed è Connie che vede sfumare la nuova vita che si è costruita, perché nello specchio d'un tratto si materializza inatteso uno spettro del passato. Lo scontro, ancora una volta, è quello fra due registi: Flamarion, che addomestica la realtà con la sua pistola, e Connie, che l'addolcisce con le sue menzogne. Ognuno cerca ancora, disperatamente, di controllare l'altro, ma ormai, ridotti i personaggi a semplici ombre, è giunto infine il momento di calare il sipario: “è finita, per me e per te”.

Come si sarà capito, il film sconta insomma soprattutto una certa convenzionalità di impianto, che pure non impedisce a Mann di condurre alle estreme conseguenze un discorso quantomai coerente. Anzi, la stessa prevedibilità degli eventi, amplificata dalla struttura a flashback, esalta in certa misura l'impostazione fatalista del racconto, che fin dalla prima apparizione di Flamarion non sembra volergli concedere scampo alcuno. È proprio questa struttura narrativa, così tipica del noir, a spingerci a riflettere sui vincoli che legano questo melodramma in nero alla successiva produzione del regista. Richiamandoci alla monografia di Jeanine Basinger su Mann (Anthony Mann, Twayne, Boston, 1979), cominciamo allora  schematizzando alcuni dei tratti fondamentali che caratterizzeranno la concezione manniana del noir:

1. Illuminazione espressiva, irreale, che ridefinisce costantemente lo spazio, relegando lo spettatore nell’incertezza;
2. Profondità di campo che, combinata con una certa fissità della macchina da presa, convoglia un senso di rigidità, come se i personaggi fossero immersi in un universo indifferente, su cui non è possibile agire;
3. Montaggio come giustapposizione di prospettive soggettive e oggettive, che ridimensiona la percezione soggettiva dell'individuo.

In misura diversa tutte queste componenti, come possiamo vedere, sono già contenute in The Great Flamarion. Intanto l'illuminazione “espressiva”, che ad esempio si palesa in due scene illuminate attraverso le veneziane, quasi a suggerire lo stato d'animo contrastato dei personaggi (in particolare Flamarion al momento di pianificare l'omicidio).
Una soluzione più sottile e ancor più incisiva è invece presente nella scena in cui il protagonista si allena al tiro al bersaglio. La meccanica maniacalità dell'esercizio, oltre che dall'interpretazione di von Stroheim e dal sonoro, è convogliata perfettamente dal gioco di luci mobili che, riflettendosi sui bersagli in movimento, illuminano ritmicamente il volto del personaggio. Poco prima, d'altronde, sempre in funzione espressiva avevamo avuto la scena in cui Flamarion riceve gli applausi del pubblico, illuminata anch'essa con uno stile volutamente irreale: in pratica la platea è completamente oscurata, come se per l’artista il pubblico nemmeno esistesse e l'unico universo reale fosse quello del palcoscenico.
O ancora, per quanto riguarda la capacità di formulare lo spazio attraverso la luce, c'è l'esempio (timido ma efficace) dell'inquadratura in cui la polizia, dopo l'omicidio di Connie, perquisisce il teatro in cerca di prove: lo spazio del soppalco, in cui si è rifugiato l'assassino, è ridisegnato proprio in funzione della torcia del poliziotto. Pur senza sfiorare i suoi risultati più alti, che nasceranno qualche anno più tardi dalla collaborazione con il direttore della fotografia John Alton, il gusto luministico e fotografico di Mann è quindi già pienamente sviluppato in questo film minore, in cui la luce è per l'appunto uno degli elementi fondanti della drammaturgia. Un'ulteriore conferma, casomai ce ne fosse bisogno, ci viene anche dall'uso delle ombre in funzione narrativa: si veda la scena in cui l'ombra del nuovo amante di Connie, proiettandosi prima su Flamarion e poi su Ted, ne accomuna il destino; o ancora il finale, in cui l'apparizione (per metonimia) della polizia ha un qualcosa di metafisico, come se alludesse non solo a un destino che si compie ma anche a un giudizio superiore.
La fissità della macchina da presa, combinata con un ricorso a inquadrature lunghe (la durata media è intorno ai 15 secondi), è invece qui probabilmente da ricollegare soprattutto alla mancanza di tempo e budget (il film è stato girato in soli 14 giorni, per un costo complessivo di 150.000 dollari). Nondimeno, il risultato è appunto un universo estremamente “rigido”, artificioso, claustrofobico, in cui peraltro – sempre per ragioni produttive – è praticamente bandito l'uso di esterni. Le uniche sequenze all'aperto di una qualche rilevanza, a parte alcuni passaggi di tempo risolti con materiale di repertorio, sono inoltre costruite con una strategia per così dire “straniante”, intanto perché sono vistosamente realizzate in esterni ricostruiti in studio, e poi perché le stesse situazioni vengono riprese due volte all'interno del racconto. Mi riferisco, in particolare, alle due scene nel parco, in cui ogni volta Connie promette a uno dei due amanti di fuggire insieme: la ripetizione, com'è ovvio, capovolge il senso del secondo incontro, donando a tutta la sequenza un ulteriore sapore d'artificio. Ma un'altra ripetizione (o rima?) interessa anche la scena, realizzata con un trasparente, in cui Flamarion seduto in treno guarda il paesaggio allontanarsi e pregusta il sapore della nuova vita che sta per iniziare: una soluzione simile caratterizzerà infatti anche il suo ultimo viaggio, sul retro di un camion, verso il Messico e quindi verso la morte.
Le limitazioni tecniche, in altre parole, finiscono per coniugarsi almeno parzialmente con le esigenze espressive, nel senso che nonostante i pochi mezzi a disposizione Mann riesce comunque a creare uno stile unitario, che ben si sposa con l'atmosfera soffocante del racconto. Il montaggio, infine, è usato spesso in funzione abbastanza elementare, perché come si è detto il film è girato soprattutto attraverso la tecnica del long take, ma fra le altre c'è almeno una sequenza che merita di essere analizzata, proprio perché contiene già in nuce quel rapporto dialettico fra soggettività e oggettività tipico poi dei lavori successivi. Si tratta della scena di cui non a caso lo stesso Mann andava più fiero, quella dell'uccisione di Ted, costruita anch'essa come ripetizione/variazione di una scena precedente, in cui per la prima volta assistevamo al numero di varietà. Mentre nella prima occasione la macchina da presa si concentrava però sullo spettacolo, in questa seconda scena ampio spazio è concesso agli spettatori in sala, di cui in certa misura ci viene chiesto di condividere il punto di vista: come loro, anche noi sappiamo di star assistendo a un numero estremamente pericoloso, in cui c'è in ballo una vita umana, ma al tempo stesso il loro è il punto di vista di qualcuno che ignora totalmente la tragedia che si cela dietro lo spettacolo. Queste inquadrature, d'altra parte, alternate con degli intensi primi piani dei due amanti, costruiscono un efficace meccanismo a suspense, proprio perché la drammaticità dei piani ravvicinati è contraddetta e insieme dilatata dalla neutralità dei piani d'insieme. Il mondo, in altre parole, assiste a questo spettacolo di morte con gli stessi occhi ignari con cui avrebbe assistito a uno spettacolo di varietà. Mann è già Mann.

4 commenti:

  1. ciao Simone, il tuo blog lo hai inaugurato alla grande... il tuo post è una delizia, scritto splendidamente...
    in attesa del prossimo, un saluto
    alessandro

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  2. Ottima recensione e complimenti per l'originale blog.
    Ciao
    Giorgio

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  3. credo di averlo visto in qualche lontana era del passato la lettura del post mi ha rievocato qualche ricordo, grazie! :)

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  4. Bravo! Excellent reading!! "Ted" is actually "Al." Also, this film is not as "B," trite, apprentice as you claim at the beginning of your article. It is, in fact, a minor noir masterpiece, even without Alton. The screenplay writer, the producer, the musical director, von Stroheim, and Mann were all deeply involved in experimental film and theatre well before 1945--and this emphasis on mirrors and the film's relationship with the audience are deliberate, not accidently or incipient, evocations of Surrealist, Artaudian, Brechtian, and Situationist theories of spectatorship.

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