La prima impressione che si ricava da The Great Flamarion è quella di un'occasione mancata, un senso di
delusione che per la verità sembra travalicare di molto i pur evidenti limiti
del film. C'entra, indubbiamente, la presenza nel cast di Erich von Stroheim,
maverick e talento maledetto per eccellenza, autore che tanto avrebbe ancora
potuto dare alla storia del cinema e che nel 1945, invece, era ormai lontano dalla
macchina da presa da quasi 14 anni. Qualche collaborazione come sceneggiatore
(da approfondire quella per La bambola
del diavolo di Tod Browning, 1936), un'apparizione folgorante ne La grande illusione di Jean Renoir, ma
soprattutto una lunga trafila di caratterizzazioni manierate in piccoli B
movies: ecco il triste declino cui era andato rapidamente incontro colui che,
ancora negli ultimi anni Venti, era stato senz'altro uno dei talenti più aguzzi
del panorama internazionale. Inevitabile, dunque, leggere in chiave
autobiografica il ruolo interpretato in The
Great Flamarion, identificando il destino dell'interprete con quello del
personaggio, un artista di varietà che, inseguendo un amore impossibile,
rinuncia progressivamente alla dignità e alla vita. Un autoritratto che, a ben
guardare, sembra quasi un abbozzo di quello interpretato, pochi anni dopo, in Viale del tramonto di Billy Wilder (e,
tanto per dare un qualche fondamento storico a quella che è una semplice
intuizione, noteremo allora en passant
che il produttore di The Great Flamarion altri
non è che William Lee Wilder, fratello “minore” del ben più noto Billy).
D'altra parte, anche la caratterizzazione di questo film altro non è che una
variazione della maschera classica che von Stroheim s'era creato, quella del
famigerato “uomo che amerete odiare”, e anzi un paio delle sue elegantissime
apparizioni in marsina non possono che rimandare immediatamente a personaggi
come quelli interpretati in Femmine folli
o Mariti ciechi. Aggiungiamoci
infine che Flamarion non è soltanto protagonista ma anche narratore, e quindi –
pur con qualche abituale incongruenza – l'intero racconto è mostrato dal suo
punto di vista, rendendo in certa misura “automatica” l'identificazione fra
attore, maschera e narratore: von Stroheim è
The Great Flamarion, ovvero von Stroheim è
il film. Si tratta di una suggestione cui durante la visione è inevitabile
abbandonarsi, d'accordo, ma solo a patto che resti appunto una semplice
suggestione, un giochino cinefilo che non metta in secondo piano il vero autore
dell'opera, il regista Anthony Mann.
Al suo sesto film in soli tre anni, Mann per il momento è
senz'altro lontano tanto dalle capacità quanto dai mezzi che avrebbero presto
fatto di lui uno dei principali registi degli anni Cinquanta; eppure proprio
con questo melodramma nero per la prima volta sembrano emergere alcuni di quei
tratti che, a partire da Morirai a
mezzanotte (1947), caratterizzeranno i suoi noir più memorabili. Certo,
l'intreccio di The Great Flamarion sconta
più di un luogo comune, e non giova al risultato finale né la ristrettezza del
budget né il livello diseguale degli interpreti: ci troviamo, senza dubbio, di
fronte a un'opera minore, ma non per questo meno godibile. Ridurre il piacere
del cinema al racconto e alla recitazione, d'altra parte, sarebbe operazione
fin troppo superficiale, mentre avventurarsi senza pregiudizi fra i titoli
minori di un grande regista può fornirci al contrario un'utile palestra per
arrivare a cogliere quell'impronta personale, quello sguardo atipico che è
sinonimo di un autentico Autore. Il piacere che si ricaverà da The Great Flamarion, in altre parole,
sarà direttamente proporzionale alla capacità che avremo di abbandonarci al
gusto del cinema puro, esattamente come ci si abbandonerebbe alle pennellate di
Cézanne o a un fraseggio di Mozart.
Il film, costruito attraverso l'artificio tipicamente noir
del flashback, inizia dalla fine: Flamarion, sedotto e ingannato da una
ballerina affinché eliminasse suo marito, ha infine rintracciato e ucciso la
donna. Da qui parte la rievocazione che costituisce, come s'è detto, il fulcro
del film, ma non per questo è da sottovalutare la funzione di questa cornice
iniziale, che anzi ci fornisce già una chiave di lettura di tutto il racconto.
La prima immagine, dopo una breve didascalia esplicativa (“Mexico City 1936”),
è infatti un lungo ed elaborato movimento di macchina della durata di circa 1
minuto e 40 secondi, che a partire dall'esterno del teatro (campo lungo) ci
accompagna fin sul palco, chiudendosi su una mezza figura dell'attore comico in
scena. A questa immagine, rilassata e armoniosa, segue immediatamente, dopo una
serie di spari, una nuova angolazione dello stesso spazio, che ci mostra
stavolta contemporaneamente la scena e il dietro le quinte, entrambi sconvolti
da ciò che intanto sta avvenendo fuori campo, nei camerini.
Già questa giustapposizione di immagini annuncia quel che
sarà il conflitto fondante dell'intero film, cioè il rapporto fra mondo e
scena, vita e arte, caos e ordine. Un tema, per esser sinceri, solo abbozzato a
livello di intreccio e sceneggiatura, ma sviluppato piuttosto da Mann in
termini puramente visivi. Si vedano comunque, proprio in questo incipit, lo
scambio di battute fra il comico e il tecnico delle luci (“la vita non è che un
palcoscenico su cui tutti recitiamo”) o la stessa scena dell'interrogatorio, in
cui i vari attori sembrano prolungare anche nella vita di tutti i giorni quelli
che sono i loro personaggi a teatro. Mann, del resto, arriva al cinema proprio
dall'esperienza di Broadway, e alcuni dei suoi primissimi film sono incentrati
più o meno direttamente sul mondo dello spettacolo (Dr. Broadway, Moonlight in
Havana, Nobody's Darling, My Best Gal), quindi è più che verosimile che un discorso del genere all'epoca lo interessasse molto da vicino. Ma se a
livello di scrittura il tema resta, per così dire, “scarsamente proliferante”,
è proprio a livello visivo che dobbiamo allora cogliere i termini di quella
drammaturgia cinematografica che più compete all'autore. Il flashback si apre
sul numero di tiro al bersaglio che Flamarion inscena con Connie e suo marito
Ted, una scenetta da triangolo borghese che, fin da subito, ci presenta uno dei
motivi figurativi più importanti nell'economia del film, lo specchio. Quest'oggetto, che
puntualmente fa impazzire la critica autorialista, diventa infatti qui
un'autentica ossessione formale, che se da un lato ravviva le scenografie fin
troppo cheap, dall'altro si trasforma nelle mani del regista in una preziosa
risorsa espressiva. Come spesso avviene, a un primo livello il raddoppiamento
dell'immagine esemplifica infatti, specie per Connie, la doppiezza del
personaggio, in questo caso una tipica femme
fatale, cinica e manovratrice. A un secondo livello, però, gli specchi
acquistano qui il valore di schermi,
evidenziando appunto il tema del rapporto fra arte e vita: è proprio attraverso
un piccolo specchio da cipria, usato come retrovisore, che Flamarion controlla la scena, mentre la stessa
scenografia è dominata da un grosso specchio “panoramico”, rivolto non a caso
verso la platea.
Lo specchio come metonimia del teatro e il teatro, a sua
volta, come metonimia dell'arte. Ma un'arte che, nel suo maniacale
perfezionismo, non può che nutrirsi sadicamente di ordine e rigore: Flamarion,
un ex militare che ha rinunciato alla carriera per una delusione d'amore,
concepisce il palcoscenico come un universo speculare in cui ricreare,
attraverso le sue pistole, un'armonia che il mondo reale gli ha negato. Lo
specchio e il teatro, allora, si trasformano soprattutto in strumenti di
controllo e autorità. Connie, che ha perfettamente inquadrato il personaggio e
sa quali corde toccare, corre infatti subito a scusarsi con Flamarion per le
intemperanze del marito, lasciandogli chiaramente intendere che anche per lei
il teatro viene prima della vita, anzi è l'unico istante in cui anche lei si
senta viva. Flamarion resta apparentemente freddo davanti a tanta devozione, ma
rimasto solo nel suo camerino non può fare a meno di specchiarsi, quasi volesse
accertarsi di non aver tradito alcuna reazione visibile alle confidenze della
donna: l'ossessione per il controllo, evidentemente, comporta anche quella per
l'autocontrollo. Ma il sistema di specchi, con una libertà tale da sfidare la
coerenza, ritorna anche nell'inquadratura immediatamente successiva: da
Flamarion allo specchio, Mann stacca su Ted nella medesima posizione, quasi a
suggerire come i due uomini ricoprano per Connie una funzione assolutamente
intercambiabile. Tanto che il dialogo con il marito, letteralmente punteggiato
da immagini riflesse, non lascia più dubbi sulla doppiezza della donna/attrice.
Ma se lo specchio diventa epifania dell'inquadratura, e
quindi della messa in scena, il dramma dei personaggi nasce appunto dal loro
illudersi di poter controllare la vita esattamente come controllano la scena. È
proprio facendo leva su questa ambizione sotterranea che Connie riesce a
sedurre Flamarion: il dialogo in treno, sottilmente erotico, stuzzica il
sadismo dell'uomo proprio perché lei si offre in mano sua come una bambola,
promettendogli implicitamente di replicare nella vita reale il
personaggio-manichino che interpreta a teatro. Flamarion, lusingato dalla
possibilità di tornare a vivere imponendo però stavolta alla vita le proprie regole,
non può che capitolare e, senza accorgersene, diventa egli stesso burattino
nelle mani della donna. Lo specchio, assente nella sequenza in cui il
protagonista comincia a perdere il controllo sugli eventi, è invece
curiosamente richiamato in causa attraverso la voce off: “Uno sguardo allo
specchio mi avrebbe convinto che io non ero fatto per lei”. L'equazione fra
specchio e controllo, a questo punto, è insomma dichiarata a tutti gli effetti,
anche se soltanto retrospettivamente Flamarion sarà in grado di riconoscersi
attore anziché regista. Subito dopo la scena in treno, infatti, assistiamo a
due suoi tentativi di manovrare Connie e Ted, ma come prevedibile si tratta
ormai di regie destinate a risolversi
in fallimento.
Nella prima scena, dopo aver regalato un abito nuovo a
Connie, Flamarion si sente per un attimo regista, e l'inquadratura non a caso
simula lo spazio teatrale. Connie, mentre si presta docilmente al suo ruolo di
“bambola”, non rinuncia però nemmeno per un attimo a tener le redini del
rapporto e, da autentica autrice, suggerisce già all'amante la possibilità di
sbarazzarsi del marito. Flamarion, restio all'omicidio, tenta allora di
allontanare Ted dalla moglie offrendogli del denaro, e ancora una volta le sue
velleità di burattinaio sono tradite dal grande specchio alle sue spalle: come
il regista sullo schermo, così i personaggi nella vita cercano di plasmare
un'altra realtà in accordo ai loro sogni.
La sconfitta definitiva di Flamarion coincide però con la
decisione di uccidere Ted durante il numero di tiro al bersaglio, simulando
così un incidente. La scena in cui Connie finalmente lo convince è orchestrata
come una raffinata variazione del precedente colloquio fra i due amanti: la
donna, ancora una volta, recita
all'interno di uno spazio dal sapore teatrale, ma stavolta Flamarion (che nella
scena precedente si credeva ancora regista, restando quindi al di qua del
sipario) entra anch'egli nello spazio della messa in scena, suggellando a
questo punto la sua definitiva sconfitta come regista. Non più autore, ma
personaggio nella commedia di qualcun altro: “Mi muovevo sul palcoscenico come
un automa, come una macchina”. L'idea di compiere il delitto durante lo
spettacolo, del resto, non fa che portare alle estreme conseguenze il rapporto
fra vita e arte: l'omicidio deve necessariamente svolgersi sul palco, perché
soltanto in quel momento Flamarion prende davvero vita, soltanto lì è
effettivamente in grado di agire, di dar corso a quelle passioni che nella
realtà di tutti i giorni non riuscirebbe a esprimere.
La parte che segue il delitto, nella sua inevitabile
prevedibilità, mantiene pur sempre un'invidiabile coerenza: Connie e Flamarion,
usciti puliti dall'inchiesta sulla morte di Ted, si danno appuntamento a
Chicago, anche se, come intuiamo da subito, Connie non ha nessuna intenzione di
onorare le sue promesse. Lo spazio vuoto della camera d'albergo in cui
Flamarion inutilmente la attende ripropone nuovamente i temi del teatro e dello
specchio.
“È un po' nudo” sentenzia Flamarion, e come su un set ordina
ai fattorini dell'albergo di allestirgli nel più banale dei modi
l'appartamento. Ignaro di essere stato ingannato, Flamarion è infatti arrivato
a Chicago in anticipo, proprio per organizzare il loro soggiorno, ma ancora una
volta non si rende conto di non aver ormai più nessun controllo sugli eventi. È
ancora uno specchio, impietoso, a farsi epifania della situazione: coperto da
troppi fiori, a malapena gli restituisce la sua immagine, ormai pericolosamente
relegata ai margini della cornice. Il personaggio, in altre parole, è pronto a
uscire di scena, non ha più alcun ruolo nella commedia architettata da Connie.
Sennonché, appunto, anche la donna ha sopravvalutato le proprie capacità di
commediografa, non prevedendo la reazione dell'amante tradito, deciso a tutti i
costi a ritrovarla.
Le scene che ci mostrano il declino di Flamarion, pur nella
loro convenzionalità, rispondono anch'esse a una funzione ben precisa: ci
mostrano, cioè, come la caduta del personaggio corrisponde ineluttabilmente al
suo allontanarsi dal mondo del teatro. La scena culminante, in questo senso, è
quella in cui il protagonista vende la sua collezione di pistole a un banco dei
pegni: è come se la rinuncia alla sua arte fosse già un preannuncio del suo
suicidio. Per contro, la resa dei conti finale con Connie assume invece il
valore di un'ultima ribalta d'onore.
Torna per l'ultima volta il motivo dello specchio e, anche
qui, mette alla prova il controllo che i personaggi pensano di avere sulla
realtà. Soltanto che le parti ormai si sono invertite, ed è Connie che vede
sfumare la nuova vita che si è costruita, perché nello specchio d'un tratto si
materializza inatteso uno spettro del passato. Lo scontro, ancora una volta, è
quello fra due registi: Flamarion, che addomestica la realtà con la sua
pistola, e Connie, che l'addolcisce con le sue menzogne. Ognuno cerca ancora,
disperatamente, di controllare l'altro, ma ormai, ridotti i personaggi a
semplici ombre, è giunto infine il momento di calare il sipario: “è finita, per
me e per te”.
Come si sarà capito, il film sconta insomma soprattutto una
certa convenzionalità di impianto, che pure non impedisce a Mann di condurre
alle estreme conseguenze un discorso quantomai coerente. Anzi, la stessa
prevedibilità degli eventi, amplificata dalla struttura a flashback, esalta in
certa misura l'impostazione fatalista del racconto, che fin dalla prima
apparizione di Flamarion non sembra volergli concedere scampo alcuno. È proprio
questa struttura narrativa, così tipica del noir, a spingerci a riflettere sui
vincoli che legano questo melodramma in nero alla successiva produzione del
regista. Richiamandoci alla monografia di Jeanine Basinger su Mann (Anthony Mann, Twayne, Boston, 1979),
cominciamo allora schematizzando alcuni dei
tratti fondamentali che caratterizzeranno la concezione manniana del noir:
1. Illuminazione espressiva, irreale, che ridefinisce
costantemente lo spazio, relegando lo spettatore nell’incertezza;
2. Profondità di campo che, combinata con una certa fissità
della macchina da presa, convoglia un senso di rigidità, come se i personaggi
fossero immersi in un universo indifferente, su cui non è possibile agire;
3. Montaggio come giustapposizione di prospettive soggettive
e oggettive, che ridimensiona la percezione soggettiva dell'individuo.
In misura diversa tutte queste componenti, come possiamo
vedere, sono già contenute in The Great
Flamarion. Intanto l'illuminazione “espressiva”, che ad esempio si palesa
in due scene illuminate attraverso le veneziane, quasi a suggerire lo stato
d'animo contrastato dei personaggi (in particolare Flamarion al momento di
pianificare l'omicidio).
Una soluzione più sottile e ancor più incisiva è invece
presente nella scena in cui il protagonista si allena al tiro al bersaglio. La
meccanica maniacalità dell'esercizio, oltre che dall'interpretazione di von
Stroheim e dal sonoro, è convogliata perfettamente dal gioco di luci mobili
che, riflettendosi sui bersagli in movimento, illuminano ritmicamente il volto
del personaggio. Poco prima, d'altronde, sempre in funzione espressiva avevamo
avuto la scena in cui Flamarion riceve gli applausi del pubblico, illuminata
anch'essa con uno stile volutamente irreale: in pratica la platea è
completamente oscurata, come se per l’artista il pubblico nemmeno esistesse e
l'unico universo reale fosse quello del palcoscenico.
O ancora, per quanto riguarda la capacità di formulare lo
spazio attraverso la luce, c'è l'esempio (timido ma efficace) dell'inquadratura
in cui la polizia, dopo l'omicidio di Connie, perquisisce il teatro in cerca di
prove: lo spazio del soppalco, in cui si è rifugiato l'assassino, è ridisegnato
proprio in funzione della torcia del poliziotto. Pur senza sfiorare i suoi
risultati più alti, che nasceranno qualche anno più tardi dalla collaborazione
con il direttore della fotografia John Alton, il gusto luministico e
fotografico di Mann è quindi già pienamente sviluppato in questo film minore,
in cui la luce è per l'appunto uno degli elementi fondanti della drammaturgia. Un'ulteriore
conferma, casomai ce ne fosse bisogno, ci viene anche dall'uso delle ombre in
funzione narrativa: si veda la scena in cui l'ombra del nuovo amante di Connie,
proiettandosi prima su Flamarion e poi su Ted, ne accomuna il destino; o ancora
il finale, in cui l'apparizione (per metonimia) della polizia ha un qualcosa di
metafisico, come se alludesse non solo a un destino che si compie ma anche a un
giudizio superiore.
La fissità della macchina da presa, combinata con un ricorso
a inquadrature lunghe (la durata media è intorno ai 15 secondi), è invece qui
probabilmente da ricollegare soprattutto alla mancanza di tempo e budget (il
film è stato girato in soli 14 giorni, per un costo complessivo di 150.000
dollari). Nondimeno, il risultato è appunto un universo estremamente “rigido”,
artificioso, claustrofobico, in cui peraltro – sempre per ragioni produttive –
è praticamente bandito l'uso di esterni. Le uniche sequenze all'aperto di una
qualche rilevanza, a parte alcuni passaggi di tempo risolti con materiale di
repertorio, sono inoltre costruite con una strategia per così dire
“straniante”, intanto perché sono vistosamente realizzate in esterni
ricostruiti in studio, e poi perché le stesse situazioni vengono riprese due
volte all'interno del racconto. Mi riferisco, in particolare, alle due scene
nel parco, in cui ogni volta Connie promette a uno dei due amanti di fuggire
insieme: la ripetizione, com'è ovvio, capovolge il senso del secondo incontro,
donando a tutta la sequenza un ulteriore sapore d'artificio. Ma un'altra
ripetizione (o rima?) interessa anche la scena, realizzata con un trasparente,
in cui Flamarion seduto in treno guarda il paesaggio allontanarsi e pregusta il
sapore della nuova vita che sta per iniziare: una soluzione simile caratterizzerà
infatti anche il suo ultimo viaggio, sul retro di un camion, verso il Messico e
quindi verso la morte.
Le limitazioni tecniche, in altre parole, finiscono per
coniugarsi almeno parzialmente con le esigenze espressive, nel senso che nonostante
i pochi mezzi a disposizione Mann riesce comunque a creare uno stile unitario,
che ben si sposa con l'atmosfera soffocante del racconto. Il montaggio, infine,
è usato spesso in funzione abbastanza elementare, perché come si è detto il
film è girato soprattutto attraverso la tecnica del long take, ma fra le altre c'è almeno una sequenza che merita di
essere analizzata, proprio perché contiene già in nuce quel rapporto dialettico
fra soggettività e oggettività tipico poi dei lavori successivi. Si tratta
della scena di cui non a caso lo stesso Mann andava più fiero, quella
dell'uccisione di Ted, costruita anch'essa come ripetizione/variazione di una
scena precedente, in cui per la prima volta assistevamo al numero di varietà.
Mentre nella prima occasione la macchina da presa si concentrava però sullo
spettacolo, in questa seconda scena ampio spazio è concesso agli spettatori in
sala, di cui in certa misura ci viene chiesto di condividere il punto di vista:
come loro, anche noi sappiamo di star assistendo a un numero estremamente
pericoloso, in cui c'è in ballo una vita umana, ma al tempo stesso il loro è il
punto di vista di qualcuno che ignora totalmente la tragedia che si cela dietro
lo spettacolo. Queste inquadrature, d'altra parte, alternate con degli intensi
primi piani dei due amanti, costruiscono un efficace meccanismo a suspense,
proprio perché la drammaticità dei piani ravvicinati è contraddetta e insieme dilatata
dalla neutralità dei piani d'insieme. Il mondo, in altre parole, assiste a
questo spettacolo di morte con gli stessi occhi ignari con cui avrebbe
assistito a uno spettacolo di varietà. Mann è già Mann.
ciao Simone, il tuo blog lo hai inaugurato alla grande... il tuo post è una delizia, scritto splendidamente...
RispondiEliminain attesa del prossimo, un saluto
alessandro
Ottima recensione e complimenti per l'originale blog.
RispondiEliminaCiao
Giorgio
credo di averlo visto in qualche lontana era del passato la lettura del post mi ha rievocato qualche ricordo, grazie! :)
RispondiEliminaBravo! Excellent reading!! "Ted" is actually "Al." Also, this film is not as "B," trite, apprentice as you claim at the beginning of your article. It is, in fact, a minor noir masterpiece, even without Alton. The screenplay writer, the producer, the musical director, von Stroheim, and Mann were all deeply involved in experimental film and theatre well before 1945--and this emphasis on mirrors and the film's relationship with the audience are deliberate, not accidently or incipient, evocations of Surrealist, Artaudian, Brechtian, and Situationist theories of spectatorship.
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